Bartoccio …e così nacque la satira

Categorie: Perugia

Il Bartoccio, maschera seicentesca del carnevale perugino, strumento per sottili invettive contro i potenti dell’epoca.

Bartoccio, maschera di carnevale - Marco VergoniCome nacque la satira moderna? Strano ma vero: a Roma, grazie ad una statua di un guerriero greco del III secolo a.C.(Pasquino) danneggiata nel volto, mutilata negli arti ma non certo nella lingua; e a Perugia per mezzo di un contadino benestante(Bartoccio), con un corpetto scarlatto sotto il soprabito verde aperto sul davanti, con i calzoni corti di velluto nero e le scarpette eleganti abbellite da due grandi fibbie d’argento. Così diversi e allo stesso tempo così simili, Pasquino e Bartoccio dettero voce a chi fino a quel momento non ne aveva avuta, smascherarono i soprusi dei potenti, evidenziarono le lacune della società del tempo e rappresentarono un potente strumento di propaganda politica.

La statua di stile ellenistico dallo strano nome (Pasquino), che tuttora è sistemata in un angolo dell’omonima piazza della Capitale, divenne famosa, dal ’500 in avanti, a causa della sua satira pungente. Nottetempo al suo collo si appendevano figli con versi diretti a colpire i personaggi pubblici. L’indomani il tutto veniva rimosso dalle guardie, ma ormai il messaggio aveva già colpito nel segno. A nulla servirono i divieti e gli appostamenti notturni dei gendarmi e diversi furono i tentativi di sbarazzarsi dello scomodo monumento, fino a pensare di gettarlo nel Tevere.

Nel ‘600 a Perugia, le maschere carnevalesche come il Bartoccio, nate con l’iniziale benestare delle autorità dell’epoca, presto si rivelarono ben più che goliardiche e innocenti caricature e, analogamente a ciò che avvenne per il “collega” romano, più volte si tentò di proibirne o di limitarne l’uso. Bartoccio, probabile storpiatura del nome Bartolomeo, iniziò a muovere i primi passi dalla seconda metà di quel secolo, nel momento in cui Perugia, dopo i fervori e la vitalità dell’epoca comunale, iniziava a perdere la propria centralità e indipendenza in favore della corte romana. Dal ’500, un’enorme campagna di bonifica e di miglioramento agricolo aveva reso la vallata del Tevere la zona più ricca e produttiva del perugino. Si era diffusa una nuova categoria di benestante agricolo, molto diversa dallo squattrinato contadino tradizionale: il colono. La costituzione di grossi poderi richiese un grande apporto di manodopera e al contempo portò un inaspettato benessere di cui il mezzadro, capo di una piccola comunità sempre più numerosa, poteva avvantaggiarsi. Questa nuova condizione strideva però con la miseria delle classi popolari urbane, e l’immagine di quel campagnolo non tardò ad essere caricaturizzata.

Ai tradizionali carri allegorici carnevaleschi iniziarono ad affiancarsi quelli legati alla figura del borioso Bartoccio e della moglie Rosa, bella contadina sempre coperta da una gran quantità di “brillocchi”. La maschera presentava tutte le caratteristiche tipiche del colono: era sì rozzo ma anche arguto, bontempone ma saggio, festaiolo ma previdente. Il problema che nacque da subito fu però un altro: questo personaggio non parlava di sé ma, con la scusa di raccontare la propria vita, evidenziava i difetti del mondo che lo circondava. Il contadino entrava in città, suonava e ballava con un grosso “radicione” (radice in dialetto) sotto il braccio, e, al momento giusto, lo sguainava come una spada lanciando fendenti a “mancina e manritta”, con la rozza e spontanea schiettezza che lo contraddistingueva. La caricatura, tramite una cicalata ridicola e allusiva in rigoroso dialetto perugino, esercitava una critica salace e corrosiva di quello che avveniva in città; distribuiva poi, da sopra il carro, i fogli con il testo delle sue bartocciate.

L’occasione mondana del carnevale e, al contempo, l’anonimato garantito dalla maschera, autorizzavano gli autori di quelle rime a libertà altrimenti precluse, e non di rado le invettive arrivavano a colpire anche i potenti. All’oralità tipica della Commedia dell’arte e ai fogli lanciati dai carri allegorici, si diffuse l’abitudine notturna di affiggere cartelli, chiamati “cartocci”, alle cantonate della città e alla porta della persona da colpire; la luce di due lumini agevolava la lettura, prima che il giorno seguente l’interessato se ne sbarazzasse.

Statua di Pasquino Roma - Nicolas Beatrizet

Statua di Pasquino – Roma

La satira condannava con forza prevalentemente due tipologie di persone: “le mascre” e “i trevagline”. Questi ultimi erano gli speculatori che, con la connivenza politica, giocavano al rialzo con il prezzo dei beni di prima necessità. A loro si attribuiva la responsabilità di carovita e ristrettezze: “Tu quì ‘l debbto arcresce e calla ‘l pène”. Le mascre erano invece i voltagabbana aggrappati al potere, chi era pronto a cambiare padrone per avvantaggiarsi economicamente e compiere rapide scalate politiche, il gregge, le consorterie, le cricche che soffocavano la cultura e la vita della città: “E quanno ‘n uomon c’ha domilla scorze/ E’ meglio a dall’ta i chène si l’vorronno”.

Dato il suo successo e la sua longevità, tanti furono i “bartocci” a celarsi dietro alla figura del goliardico colono. Medici, giuristi, aristocratici o semplici simpatizzanti composero un’innumerevole quantità di “bartocciate” e, data l’abitudine di divulgare oralmente queste satire, solo una piccola parte è arrivata fino a noi. La maschera aveva, perciò, tante anime perché ogni autore, pur seguendo un canovaccio ormai consolidato, esprimeva inevitabilmente il proprio modo di pensare.

Bartoccio, come Pasquino, si dimostrò da subito in aperta opposizione al Governo pontificio, criticato per la sua oppressione quotidiana nella vita economica, sociale e persino nella sfera privata. Il forte sentimento anticlericale portava ad evidenziare i difetti e le contraddizioni della figura del prete che si trasformava lui stesso in maschera. In una delle bartocciate più famose un prelato volle indossare cilindro e cravatta, travestendosi da “omo” per bere, mangiare ed entrare in teatro a vedere le ballerine senza essere riconosciuto. Fu l’impietoso colono a raccontare le reazioni del poveretto: “Donca lue me diceva: «Bartoccio mio, che ciccia!»

Il Risorgimentale ritrovò in questa maschera l’espressione di ribellione e di dissacrazione nei confronti del dominio pontificio. Il sagace contadino fu il simbolo dell’irriducibile spirito perugino, non fiaccato dalla sottomissione, ma capace di graffiare, colpire e scomparire nel nulla.

Seguì poi l’occupazione piemontese del 1860 e l’Unità d’Italia. La nuova classe dirigente rivendicò subito la maschera. Il nuovo governo aveva liberato il popolo dal duro regime precedente: “Quand’i prete cmandavono ta noe/(…) Che tempacci eron quiglie!”. Tutti dovevano festeggiare perché “comar Roma” da “serva del prete” era diventata la più bella “fattoressa” del vicinato. La pesante recessione che seguì il periodo post-unitario doveva essere vista solo come una fase necessaria di assestamento, capace di aprire la vecchia e statica società locale alle enormi possibilità di sviluppo date dalla nuova nazione. Occorreva partecipare alla società in modo positivo, onesto e progressista, abbandonando le tradizionali apatia e musoneria perugine che nascondevano: “frète smisse”, cioè nostalgici del governo papalino.

Bartoccio maschera di Perugia - spettacolo di burattini

Era però difficile imbrigliare la maschera dello schietto colono a scopi politici e la sua satira non si fece attendere. Commentando gli interventi urbanistici che in quegli anni stavano rimodellando la città di Perugia, dietro agli elogi per i lavori di via Vecchia, il contadino consigliava di non cambiare nome alla via, perché “me pèr più vecchia de quil ch’era prima”. Se in città l’illuminazione a gas non funziona, in compenso: “sti conte e sti barona hanno in casa un gas fatto a posta e nun fa fume” e iniziò a vociferare di una “certa porcaria/de guadrin sgrafignète”.

Il bersaglio della satira divenne il nuovo potere, che alle speranze e alle illusioni della vigilia aveva risposto con l’occupazione militare, la repressione delle idee democratiche e repubblicane, il crollo dell’economia locale, il peggioramento delle condizioni di vita del popolo con i balzelli e con il servizio militare. Si era fatto tanto per cambiare, accorgersi poi di aver cambiato solo padrone.

Il colono, fingendo di ringraziare il nuovo regime per aver debellato il vizio del bere grazie ai continui rincari dei prezzi del vino, denunciava un caro viveri ormai insostenibile. Nei tempi andati: “Se vendeva ’l vin s’amazzeva ‘l maiele/E st’an vol gì mele pel por bartoccio,/ Che nun c’è manco la sogna pel biroccio”; non restava che sognare, per la nuova vendemmia, che le viti producessero “vermutte”.

La delusione popolare portò alcuni autori a vedere in Garibaldi una icona di pulizia, giustizia, rigore morale e civile: “Ma ‘nvece de sciupè tante guardine/ (…) E n saria meglio che sti cittadini/ trattasson bene e pu ta tutte uguale.

La maschera, con inevitabili alti e bassi, spaziò in un periodo temporale di circa 300 anni e, mentre il cugino romano Pasquino esaurì la sua funzione di opposizione al regime pontificio con la Breccia di Porta Pia, Bartoccio arrivò a lambire il secondo dopoguerra e a satireggiare su Mussolini, Hitler e Stalin. Lasciò poi posto ad altre maschere con la progressiva e inesorabile decadenza della società contadina.

Chissà cosa penserebbe oggi della politica e della società? Non siete curiosi? Attenti, perché potrebbe decidere di risponderci!

 Per approfondimenti:
“Bartocciate alla Perugina”, a cura Luigi M.Reale
“Gli anni del Bartoccio”, Renzo Zuccherini
“Le molte vite del Bartoccio”, Renzo Zuccherini, Marco Vergoni

pubblicato su: Terrenostre (Febbraio 2014)

Una particolare dedica al grafico e disegnatore perugino Marco Vergoni

Riguardo l'autore

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Ingegnere impegnato da anni nel campo dell’automazione industriale. Ama il suo lavoro ma al contempo è affascinato anche da: storia, tradizione e misteri della sua terra, l’Umbria. Collabora con alcune riviste e quotidiani e ha la profonda convinzione che il migliore investimento per il futuro sia la cultura, settore in cui l’Italia, per quanti sforzi possa fare, non sarà mai seconda a nessuno.

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