Nella mia peregrinazione nella storia mi sono soffermato molto sul Novecento, sono arrivato a sbirciare dentro le case del popolo, avido d’informazioni su usi e costumi molti dei quali ormai persi per sempre. Devo ammettere però che l’essere distante dai grandi centri ha rallentato l’inesorabile avvento del progresso di questi ultimi anni. Del nostro passato prossimo si è conservato sicuramente di più che altrove e il processo di cementificazione moderno è stato qui meno aggressivo.
Prendo consapevolezza di ciò che dico ogni qualvolta che osservo i bambini di alcune famiglie metropolitane che vengono a passare le vacanze da noi. Si sa che i bimbi sono più spontanei e manifestano in maniera più schietta le sensazioni che provano, e quindi rappresentano un buon metro di valutazione. Nella maggior parte di loro è palese una meraviglia nell’osservare la natura che noi non percepiamo. Perfino l’incontro con una pecora, un cavallo o un asino è un evento da ricordare, e i genitori scattano foto a futura memoria. Un minuscolo paesino come il nostro ha quindi qualcosa che Roma, Milano o Venezia non hanno! La vocazione agro-pastorale della zona, le politiche di tutela dei beni turistico-ambientali e non ultimo il fatto di essere isolati contribuiscono a preservare la nostra natura da un mondo che è cambiato e sta ancora cambiando.
Sono proprio questi ultimi due secoli, come accennavo, a creare più sconquassi nella tranquilla vita contadina locale. Tante sono, infatti, le trasformazioni dello stile di vita sopraggiunte nella società ottocentesca con l’ingresso del nuovo secolo. I primi del Novecento sono il teatro dello scontro socio-politico tra proprietari e coloni e proprio da noi, in cui l’agricoltura e la pastorizia sono le uniche risorse, la battaglia è più aspra. I braccianti lamentano le ingestibili condizioni di miseria cui devono far fronte. Tutto ciò porta ad un nuovo accordo fra le parti: il Patto di mezzadria. Il contratto prevede che si faccia a metà di tutto: il raccolto e le spese, tranne la semenza per la semina e la riparazione degli attrezzi che rimangono di competenza del contadino. A quest’ultimo, però, spettano sempre deferenza ed ossequio nei confronti del suo datore di lavoro, e rimane l’obbligo delle regalie. Naturalmente l’obiettivo della classe contadina era quello di trasformare la mezzadria in affitto per poi compiere il successivo passo verso la piccola proprietà, ma per questo occorrerà ancora aspettare. Altro attende la tranquilla comunità contadina, è tempo di lasciare i campi per il fronte.
Giulio racconta:
“…nel 1923 (data della mia nascita), il paese era costituito da un piccolo agglomerato di casupole, a malapena forse segnalato nelle carte topografiche del tempo.
Tre sole famiglie, se ben ricordo, erano proprietarie di alcuni terreni e, insieme al parroco e alla maestra, rappresentavano, per così dire, i notabili del paese. Tutte le altre, compresa la mia, erano famiglie di contadini, braccianti, pastori o addetti, in ogni caso, ai lavori di campagna.
L’unica via che collegava il paese alla città di Assisi, era una tortuosa, stretta e sconnessa strada campestre che consentiva a malapena il transito di un carro di buoi e che d’inverno diventava quasi impraticabile. Io ero il secondo di quattro figli (due maschi e due femmine). Mio padre aveva combattuto nella guerra del 15-18, riportando una brutta ferita ad un piede che, a distanza di anni, continuava ancora a dargli dei problemi. Di sera, quando si stava intorno al camino e veniva a farci visita qualche amico o vicino di casa, il discorso finiva spesso sull’argomento della guerra.
Mio padre, con dovizia di particolari, raccontava dei morti, della fame, del freddo, delle notti passate all’addiaccio nel pantano delle trincee e delle tante altre brutture di quel conflitto. Io ascoltavo e quei racconti mi sembravano favole, cose inverosimili, lontane nello spazio e nel tempo e che non avrebbero più avuto occasione di ripetersi. Tornato dalla guerra, si era sposato e aveva preso a condurre a mezzadria un podere di circa trenta ettari, gran parte dei quali costituiti da bosco e prati spontanei. Solo una modesta superficie veniva arata per le colture. Il suolo, avaro come gran parte dei terreni di alta collina, non compensava adeguatamente il tanto sudore versato. Il magro reddito ricavato dai campi veniva integrato da un piccolo gregge affidato alle cure di mio nonno.
Spesso, quando portava il gregge in montagna, mi faceva capire che avrebbe gradito che lo seguissi ma io accettavo raramente e mal volentieri; preferivo rimanere a casa a giocare con mio fratello più piccolo o un altro amico che di tanto in tanto veniva a casa mia.”
Poi arrivò la guerra:
“La Germania sembrava stravincere su tutti i fronti ma ancora non c’erano notizie su un possibile intervento dell’Italia. Io aspettavo da un momento all’altro la chiamata e i miei cominciavano già ad essere preoccupati. Un po’ forse per l’incoscienza dei venti anni, un po’, per la grande voglia di evadere dall’ambiente di campagna, fatto è che, fra tutti, il meno preoccupato ero proprio io.”…
…e infine la partenza:
“…raccomandazioni, di quelle che sono solite fare tutte le mamme di stare attento, di non espormi troppo, di coprirmi bene (faceva un gran freddo in quei giorni di febbraio), di scrivere spesso. Quasi sempre le parole venivano interrotte dal pianto. Mio padre taceva: sapeva bene che, in guerra, l’unico consiglio che si potesse dare ad un soldato, era quello di raccomandarsi a qualche santo.
Il giorno precedente la partenza, mia madre scaldò il forno per il pane; ne fece una quantità ridotta per lasciare spazio a un grande torcolo e all’arrosto (un pollo e due piccioni). Io andai a coricarmi presto ma riuscii a prender sonno molto tardi.
Sentivo in cucina i passi di mia sorella maggiore e di mia madre impegnate a preparare l’occorrente: qualche maglia di lana, due pagnotte di pane fresco, il torcolo, l’arrosto, un paio di bei calzini appena regalatimi da mia nonna e altre cose. Il tutto fu confezionato in un cartone di grosso spessore legato con un robusto spago perché potesse reggerne il peso.
Verso le cinque del mattino, salutati mio padre e mia madre che aveva gli occhi rossi per il pianto e la notte passata in bianco, accompagnato da entrambe le sorelle, mi avviai a piedi alla stazione di Valtopina. Era una mattina gelida e umida, di quelle che solo gl’inverni peggiori sanno dare; faceva ancora buio, parlavamo poco, ogni tanto esse insistevano per portare il pacco e mi ripetevano le stesse raccomandazioni della mamma, soprattutto di scrivere spesso. Dopo non molto tempo arrivò il treno, ci salutammo e salii sulla carrozza più vicina.” (Piermatti, Giulio (2006) Diario di un soldato)
Tutto si ferma per far fronte alle esigenze derivanti dagli eventi bellici; anche alcune importanti feste e celebrazioni commemorative, come ad esempio la Cavalcata di Satriano a ricordo degli ultimi giorni di vita di S.Francesco, soccombono alla guerra: …a rievocare la cavalcata fu una compagnia che vantava nomi celebri come Gabriele D’Annunzio e Guglielmo Marconi, ma dopo il 1941 allo scoppio della seconda guerra mondiale e la susseguente carenza di cavalli, la tradizione si interruppe. (Salari, Gabriele (2008) Diario umbro: un anno sul monte Subasio tra santi, lecci e profeti)
Mi trovo al centro del paese, insieme ai pochi rimasti, abbiamo appena visto allontanarsi e poi scomparire dietro una collina i soldati partiti per il fronte, quando di gran lena arriva nella nostra direzione un ciclista con una bella bici da corsa rossa e verde. Siamo in mezzo alla carreggiata e, in quel momento, proprio non ci saremmo mai aspettati che un oggetto dalla velocità tale ci potesse venire addosso. L’uomo in sella tempestivamente si accorge di noi e frena, poi accenna con un gesto le proprie scuse e fa per ripartire. Faccio in tempo a scorgere una scritta «Legnano» sul tubolare della bici e «Bartali» inciso sulla parte anteriore della maglietta. “E’ Gino Bartali il vincitore del Giro d’Italia nel ‘36 e nel ‘37 e il Tour nel ‘38. Cosa ci fa qui?” (il passaggio di Bartali ad Armenzano non è comprovato ma è documentabile che dal settembre 1943 per ben quaranta volte il ciclista partì da Firenze e, dopo più di 200 chilometri di strade secondarie e di montagna, arrivò ad Assisi). Faccio per domandargli qualcosa ma è già lontano.
…Gino Bartali, grande uomo ancor prima di essere il campione da tutti conosciuto, aveva nel suo dna i valori umani di vera fede cristiana dimostrando con la vita quotidiana di “aiutare il prossimo prima di se stesso”. Non esitò un attimo quando, nei suoi frequenti colloqui con il Cardinale Elia Dalla Costa e con il Senatore Giorgio La Pira, grandi personaggi di Firenze, gli prospettarono di collaborare per poter salvare la vita ai tanti perseguitati politici dissidenti al regime, potendo portare documenti, come foto con nominativi diversi dal vero, nascondendoli, nel trasporto, dentro il tubo reggisella della sua bicicletta eludendo qualsiasi controllo.
Accettando questo incarico dimostrava di amare il prossimo più di se stesso, incurante del rischio che correva per se stesso e per la sua famiglia, ignara di tutti i suoi lunghi allenamenti in un periodo senza gare. A chi gliene chiedeva il motivo rispondeva: “Mi devo tenere in allenamento: un giorno finirà questo inferno”.
Anche a guerra finita neanche i suoi più stretti amici e colleghi di allenamento, come Alfredo Martini, Fiorenzo Magni, Giovannino Corrieri, il fedelissimo di Gino ed altri, mai ebbero un cenno, una frase o parola di questo suo impegno.
In breve sintesi il viaggio che compiva: già all’alba si recava alla Curia Vescovile di Firenze per ritirare documenti, inserirli nel tubo che regge la sella e via per la strada S.Donato, Valdarno, Arezzo, Terontola con fermata dal sarto Dino Magara, un amico di Gino che aveva preparato la colazione: due fette di pane bianco con prosciutto del contadino ed un bicchiere di vino rosso. Poi ripartiva in bici fermandosi un km dopo, sopra il Ponte della Variante. Lì finiva il panino, o faceva finta di gonfiare la bici, in attesa che fosse passato il treno che veniva da Assisi e che avrebbe fatto l’ultima fermata a Terontola. Poi ritornava alla Stazione appoggiava la sua Legnano ed entrava dentro il Bar a prendere il solito caffè. Il suo intento era quello di attirare l’attenzione dei tanti tifosi che sapevano del suo arrivo e nello stesso tempo distrarre la Milizia e la Polizia Tedesca che controllavano i documenti delle persone sospette: in questo modo era più sicuro poter scambiare documenti falsificati tra viaggiatori che arrivavano dal treno di Assisi e in partenza con i treni coincidenti, nell’arco di 6/7 minuti, per Roma e oltre, per Bologna, Milano, Svizzera, Udine e oltre.
Con la partenza dell’ultimo treno Gino ringraziava per il caffè offerto salutando tutti i presenti dicendo che sarebbe tornato il martedì o il venerdì successivo. Inforcava il suo cavallo d’acciaio e se girava a destra sarebbe andato a Castiglione del Lago, al Campo d’Aviazione, se girava a sinistra sarebbe andato verso Passignano per poi portarsi ad Assisi.
Ad Assisi i suoi punti di riferimento, dove lasciava foto e nominativi per i documenti da stampare falsificati, erano il Monastero di Clausura di San Quirico, dove suor Alfonsina e Suor Eleonora provvedevano a dar qualcosa da mangiare per rifocillarsi prima del suo viaggio di rientro a Firenze; oppure al convento di San Damiano dove si incontrava con padre Rufino Niccacci; o anche alla Curia Vescovile dove si incontrava con l’Arcivescovo Nicolini, fissando gli impegni successivi. (Faltoni, Ivo (2009) <http://www.faltoni.it>)
Durante la seconda guerra mondiale, nel periodo seguente all’8 settembre 1943 e all’occupazione tedesca, Assisi è letteralmente invasa dai profughi tra i quali oltre 300 ebrei. Il vescovo Nicolini trasforma Assisi in uno dei centri principali della resistenza civile italiana all’Olocausto. Travestiti da frati e suore, nascosti nei sotterranei e nelle cantine, mimetizzati tra gli sfollati provvisti di documenti falsi, gli ebrei rifugiatisi ad Assisi sono protetti da una vasta rete di solidarietà che si estende anche ad altre zone dell’Umbria.
Tra i rifugiati ci sono: donne, bambini, vecchi, ammalati, che necessitano di cure ed assistenza. Si organizza persino una scuola dove i bambini ebrei possono ricevere istruzione religiosa ebraica. Grazie anche alla complicità di un ufficiale tedesco, che dichiara Assisi una zona franca ospedaliera, nessun ebreo è deportato dalla città. E’ la famiglia Brizi, che nel suo piccolo negozio di souvenir vicino a piazza Santa Chiara, a provvedere alla stampa di tanti falsi documenti di identità.
Nel frattempo la guerra finisce e tutti aspettano con trepidazione notizie dal fronte. Sono tre i militari del paese fatti prigionieri: uno è gia tornato e di un altro si è già avuta notizia della morte. Da quel che resta della stazione di Valtopina distrutta dalle bombe, giunge la notizia che un prigioniero originario di Armenzano è passato di lì. Capisco subito di chi si tratta perché scorgo la madre di Giulio, immobile e trepidante, in un angolo dell’aia da cui si può vedere un lungo tratto di strada che porta a casa sua.
Giulio si ricorda bene di questo giorno:
“Rimase lì, ferma ad aspettarmi, per tutto il giorno. In lontananza non mi riconobbe subito; immaginava di vedermi tornare in divisa militare e non con quello strano abbigliamento. Allorché le fui vicino e non ebbe più dubbi, si precipitò verso di me piangendo, ma questa volta erano lacrime di gioia. Mi abbracciò a lungo tempestandomi di mille domande. A casa, fuori ad aspettarmi, c’erano anche mio padre e mia sorella più piccola; altri abbracci, altre domande, ma per entrambi era difficile interrompere e inserirsi fra le tante parole di mia madre. Seguirono giorni di festa, giorni di commozione. Venne mia sorella maggiore che durante la mia assenza si era sposata, gli amici del paese e per me fu come rinascere una seconda volta.
Viste le mie condizioni, sia mio padre che mia madre, per alcuni mesi mi esonerarono da qualsiasi incarico e qualsiasi fatica; mia madre, in particolar modo, avrebbe voluto ricaricarmi, in pochi giorni, di tutti i chili di peso perduti. Lentamente mi ripresi fisicamente e moralmente e iniziai a riprendere i progetti da dove li avevo lasciati due anni prima.” (Piermatti, Giulio (2006) Diario di un soldato)
Per festeggiare il ritorno del figlio, quest’anno suo padre ha intenzione di ammazzare il maiale più grosso della fattoria.
Questi animali erano il vero patrimonio delle case contadine, una vera miniera per la loro miseria dispersa: prosciutti, capocolli, bistecche, lardo, salsicce, codiche, coppa, sanguinaccio, fegatelli. Praticamente non si buttava niente e messo sotto sale la sua carne si mangiava tutto l’anno.
Quando arrivava gennaio, con le sue forti gelate e le brine tanto da coprire di un velo bianco tutti i campi, si approfittava della temperatura rigida per ammazzare il maiale più grosso e cominciare a salare i pezzi induriti dal freddo gelido della tramontana. Quello era un avvenimento molto importante e atteso dalle famiglie coloniche. Così a turno da un po’ tutte le case del vicinato, quasi tutti i giorni si sentiva salire l’urlo terrificante che annunciava la fine di una per volta di quelle povere bestie. Uccidere il maiale era quasi un rito che durava alcuni giorni e impegnava diverse persone. Serviva un buon macellaio, esperto norcino. Di tutta la delicata e impegnativa operazione egli, ovviamente, era il protagonista principale. Era lui che arrivando tirava fuori da un borsone un panno pesante, dove teneva avvolti tutti i coltelli indispensabili per il suo lavoro, la pietra per l’affilatura e la lama per la rasatura. Si infilava sopra gli abiti un grembiule incerato per non sporcarsi di sangue, mentre gli uomini giunti a dare una mano avevano già tirato dallo stalletto il maiale predestinato. Nell’aia era già stato preparato il palco, sul quale era stato tirato e spinto con forza l’animale. Lo si stendeva sul fianco sinistro, mentre strilla con tutta la sua forza, sgambetta e si agita cercando di sfuggire alla presa lanciando forti grugniti. Gli uomini gli bloccavano la bocca e gli legavano accoppiate le zampe a due a due, quelle di avanti e quelle di dietro. A volte per questa operazione ci volevano sette o otto persone, specialmente quando il maiale era particolarmente grosso. A questo punto il norcino sceglieva dalla sua collezione il coltello con la lama più lunga, sottile e con solida impugnatura e lo infilava, con un colpo preciso e fermo, tra la gola e il petto in modo che la punta della lama raggiungeva il cuore, così che alla bestia non gli rimanevano che solo pochi minuti di agonia, dopo che aveva emesso il suo ultimo, straziante grugnito. Dall’ampia ferita il sangue sgorgava a fiotti nel secchio, fumando a contatto con l’aria rigida.
Quando si apriva il maiale già morto, e recuperato tutto il sangue, poiché nulla dell’animale andava sprecato, lo si passava con l’acqua bollente per rasarlo dalle setole, e rendere la cotica pulita. Questo lavoro avveniva sull’aia che in quei giorni diventava particolarmente animata dal via vai di tutta la famiglia e di qualche parente o vicino che andava apposta per dare una mano. Anche i cani, durante l’operazione della spolatura, vi giravano animosamente attorno, in attesa di qualche sperato boccone. (Piccolo, Cosimo (2007) La magia dell’aia: scene di vita contadina)
Dopo la guerra ad Armenzano la vita continua tranquilla come sempre lo era stata dall’inizio del tempo, con i suoi terreni scoscesi, i suoi ritmi lenti e i suoi abitanti burberi e scontrosi, ma sempre pronti a dividere con gli altri quel poco che riescono a tirar fuori dalla terra. Lentamente ma inesorabilmente lo spopolamento delle campagne ridusse il numero di abitanti del borgo fino a far restare solo poche famiglie.
Un gruppo di ragazzi del paese si è radunato per una festicciola e sta allegramente cantando una filastrocca che prende in giro i concittadini più anziani, mettendo in evidenza i loro difetti:
C’è Minelli co’ Pacino
chi becchino e chi scopino,
d’ogni cosa fan razzia,
con perfetta pulizia.
Belardino, Belardino,
‘nto la tasca ‘n ci ha un quatrino,
‘nto la cassa ci ha milioni,
pe’ comprasse i maccheroni.
Ben pasciuto e rubicondo,
sta il Ghiacchetto in questo mondo,
egli certo a nulla pensa,
poiché ha piena la dispensa
Dalla Svizzera è tornato
e la trippa ha aumentato,
son contenti nelle notti
tutti quanti li leprotti.
Spippacchiando sta Righetto
e dormenno al caminetto,
mentre il Chicchero e Chiarella
stan leccando la padella.
Guardabosco assai altero
egli a tutti fu severo.
Oggi invece ch’è in pensione,
s’è mutato in burlacchione.
E Batino, fischiettando,
verso il monte sta correndo,
muove, muove lesto i passi,
per cacciare tutti i tassi.
Chi l’ha visto e non l’ha visto
tutti sanno quant’è tristo
quanno gioca giù in bottega
si ‘n t’accorge lui te frega.
Crispinaccio cotto cotto,
a vedello pare zoppo,
quanno vede un bel lepretto
salta via come un capretto.
C’è un tale su stò colle
con cent’anni sulle spalle
de Cruscioffe se ne ‘ntenne
ma è la trippa che je penne.
da Cavanna c’è un volpone
che lo chiamano torrone,
egli sempre si lamenta,
ma la moglie i soldi conta.
Paoluccio con la Gigia
stan facendo gran litigia
e coi giovani s’è arrabbiato
perché i passeri ji han scovato.
E c’è Chiocchio de Mazzone
pare sempre un santacchione,
la Zelinda che gne manca
de quatrini riempe banca.
In politica Sor Orbe
il decino del paese
da Armenzano a Nottiano
col somar va piano piano.
(Gubbini, Maria Pia (1970) Le tradizioni popolari…nella frazione di Armenzano)
Il Piano Regolatore di Assisi del 1955-58 redatto dal prof. Giovanni Astengo cita:
In montagna le rese del frumento variano da luogo a luogo, da massimi di 15-18 quintali a minimi di 6 q.li a ha: buona è ad esempio la produttività nei dintorni di S. Maria di Lignano, Pieve S. Nicolò e S. Anna, ma scarsa ed in alcuni tratti scarsissima, sul versante settentrionale del Subasio da Costa Trex a Nottiano.
La famiglia media della montagna riesce solo a bastare a se stessa, per ciò che concerne l’alimentazione, poiché il lavoro del capo produce un numero di unità nutritive pari ai componenti medi della famiglia.
L’economia montana in complesso si trova quindi tendenzialmente in stato stagnante, senza grandi possibilità di sviluppo per forze proprie…
L’esodo della popolazione dalla montagne in questi ultimi decenni altro significato non ha se non quello dello sfìoratore dei serbatoi, esso agisce automaticamente per alleggerire il carico di popolazione che ha già raggiunto, allo stato attuale dello sfruttamento agricolo, il massimo sopportabile.
Pochi sono i contatti tra Armenzano e il mondo esterno ma in quei sparuti casi la comunità cerca di darsi un adeguato contegno. Oggi 24 giugno 1957 il paese è euforico, tutto deve filare nel modo giusto per l’inaugurazione della restaurata chiesa di Nottiano. Le personalità che accorreranno devono rigorosamente essere accolte con l’abito buono e tutti gli onori che meritano.
Tra di esse la più degna di nota è indubbiamente Arnaldo Fortini, che tutti ancora chiamano con l’appellativo di «Podestà». Non lo conosco personalmente e perciò me ne faccio parlare da un mio concittadino. Il quadro che ne esce è di una persona da qualità e cultura fuori dal comune. Discendente da un’antica famiglia umbra, si laurea in giurisprudenza e inizia la professione forense, senza però accantonare gli studi storici e la musica. Uomo politico di spicco ricopre dal 1923 per vent’anni la carica di podestà della città di Assisi per poi aderire, dopo la guerra, alle Democrazia Cristiana. La sua presenza si fa sentire in molti occasioni importanti della vita locale. In ambito politico-militare: parte come volontario ed esercita le mansioni di avvocato allo scoppio della prima guerra mondiale. Nel corso della seconda guerra mondiale, sotto l’egida della Santa Sede contribuisce a salvare la città di Assisi da inutili distruzioni, proclamandola città ospedaliera. Poi nel 1944 è uno degli avvocati difensori dei gerarchi di Mussolini al processo di Verona, evitando ad uno di essi la condanna a morte. La sua forte personalità spicca però prorompente, soprattutto nella vita civile e culturale della sua patria. Nel 1920 viene eletto presidente dell’Accademia Properziana del Subasio. Il 1923 è la data in cui, costituisce come già ricordato, insieme a altri illustri colleghi, alla formazione della “Compagnia dei Cavalieri di Satriano”. Organizza nel 1926 le celebrazioni del settimo centenario della morte di Francesco d’Assisi, evento a cui aderiscono contemporaneamente 72 Nazioni. Nel 1927 rievoca, dopo secoli di disapplicazione, la festa del Calendimaggio, che da allora viene svolta tutti gli anni nei primi giorni del mese di maggio. Nel secondo dopoguerra il rettore dell’Università di Perugia crea presso il suo ateneo un percorso di studi francescani, la cui cattedra è assegnata proprio a Fortini. Il «gossip» lo ha più volte preso di mira per la sua amicizia con Gabriele D’Annunzio con cui ha in comune l’amore per la poesia e l’ammirazione per San Francesco. I rapporti tra i due non sono sempre tranquilli e D’Annunzio spesso usa ribattezzarlo, per le sue ideologie, “Frate Arnaldo del Subasio”, attribuendogli il motto: “Nihil mihi Domine!” (“Niente per me, o Signore!”). Ma le chiacchiere di piazza gli attribuiscono soprattutto un’intima amicizia con Giovanna, figlia del Re Vittorio Emanuele III di Savoia, di cui organizza in Assisi, nel 1930, il matrimonio con Boris III di Bulgaria. Si vocifera che Giovanna di Savoia ed Arnaldo Fortini si frequentino e che la Regina di Bulgaria faccia visita in Assisi, così di frequente e spesso in anonimato, per incontrarlo.
Che occasione conoscere questo personaggio! Chissà che pensa del nostro paesino di montagna e cosa lo ha portato a presiedere proprio questa manifestazione? Sentiamo le sue parole per l’occasione:
“Il paese è posto in una gola remota sul brullo rovescio del Subasio, abitato anche oggi da pochi contadini, che vivono la loro dura vita e primitiva come al tempo del Santo…
…La chiesa di Nottiano è una delle più gloriose del mondo francescano…
…Orbene questa chiesa, la quale conobbe il volto e il cuore di Francesco e le sublimi parole di lui all’uomo devoto dei campi, che seppe elevarsi al di sopra di ogni preoccupazione terrena per abbracciare l’idea dell’amore, era ridotta in così disastrose condizioni, che di essa rimanevano più soltanto i quattro muri malfermi. Il tetto era crollato.
Nell’agosto del 1951 la Compagnia dei Cavalieri di Satriano sollecitò, con una lettera aperta sul «Tempo», al Ministro dell’Agricoltura, il restauro della chiesa. «Trattasi», così diceva la lettera «del luogo in cui venne nobilitato, esaltato, santificato, il cuore del povero contadino, divenuto, per merito del Poverello, l’apostolo e il discepolo dell’amore. Tutelare gli umili coltivatori nel loro patrimonio non soltanto materiale, ma altresì spirituale, rientra bene nei compiti del Dicastero da Lei presieduto. Mentre si spendono centinaia di milioni per elevare nuovi templi da consacrare al Patrono d’Italia, non bisogna lasciar perire le piccole chiese che egli amò, le cui pietre conservano il fremito della sua anima e della sua benedizione».
Questo restauro è oggi un fatto compiuto.
L’appello della Compagnia e le pratiche da essa avviate non sono rimaste inascoltate. (Fortini, Arnaldo (1957) 24 giugno 1957: inaugurazione della restaurata chiesa di Nottiano)”
Penso che Fortini abbia anche in questa circostanza colto un’occasione per distinguersi, e per meritare la fama che lo circonda.
Negli anni altri uomini illustri celebrano con la loro presenza la laboriosità della popolazione di questo borgo. Un altro personaggio degno di nota è lo scultore Francesco Prosperi, un artista a detta di molti: dall’animo
disinteressato, negato alla contrattazione e generoso; con le sue opere gratifica spesso amici, religiosi, parroci, comunità anche piccole e semplici…
Non scolpisce per guadagno, ma in risposta ad un suo intimo bisogno di operare e trasmettere agli altri le proprie emozioni, anche per questo la sua scultura ha sempre affascinato e toccato vette di professione difficilmente raggiungibili. (Camillucci, Marcello (1997) (presentazione di) Francesco Prosperi scultore (1906-1973))
Il paese riceve nel 1961 l’omaggio dell’artista: una bellissima terracotta dal titolo: «Il Miracolo di S.Antonio Abate – l’asino sospeso sul dirupo», eseguita appositamente per commemorare un evento miracoloso colà accaduto, a metà strada tra Armenzano e Nottiano. Questa è poi posta in una edicola costruita dalla locale comunità. (Camillucci, Marcello (1997) (presentazione di) Francesco Prosperi scultore (1906-1973))
Gli anni passano e dalla Preistoria siamo quasi arrivati ai giorni di oggi. Nei corsi e ricorsi della storia, alla fine degli anni ’60 il numero di famiglie censite ad Armenzano è lo stesso di quello del primo suffragio di cui si ha memoria: quello del 1232. Sono curioso e mi sono appuntato i 40 nome dei rispettivi capofamiglia e li ho riportati in una tabella a mo’ di confronto tra allora e adesso:
Censimento popolare delle balìe del 1232 | Gubbini Cingolani – 1970 – “Letradizioni popolari…nella frazione di Armenzano” |
Ufreduccius Abetani | Bertoldi Antonio |
Conpagnone Accoliti | Bertoldi Attilio |
filii Adeorsoli | Bertoldi Domenico |
Mattelda Adiuti | Bertoldi Giovanni |
Angelus Alberti | Bertoldi Lorenzo |
Vetianellus Alberti | Bertoldi Ottavio |
Bartholus Aldrebandi | Bocchini Enrico |
Mancia Angeli | Buccilli Armando |
Nicola Blanci | Buccilli Giuseppe |
Bonellus Bernardoli | Cimarelli Franco |
Benencasa Bernardi | Cimarelli Marcello |
Benvengnate Bernardi | Cosimetti Aurelio |
Saracenus Bernardi | Fiordi Adelmo |
Volta Bernardi | Mazzoni Giuseppe |
Ianuarius Carani | Mazzoni Nello |
Milliorettus Constantini | Menichelli Eugenio |
Berta Gasdie | Mirti Concetta |
Andreas Gilii | Orbi Agostino |
Angela uxor Gilii | Orbi Fabio |
Thomas Gilii | Orbi Germano |
Agura Ianuarii | Orbi Nazzareno |
Girardus Iohannini | Orbi Sabatino |
Silvester Manentis | Ornielli Bruno |
Manentis Martucii | Paolucci Arminio |
Ranaldus Nicole | Perini Enrico |
Bonfilius Ofreducii | Perini Ugo |
Oportella Oportoli | Rosati Aldo |
Ionta Pagani | Rosati Mario |
Corvolus Petrucçali | Rosati Olivio |
Ianuarius Petrucçali | Rosati Pietro |
Ranaldus Petrucçoli | Serena Attilio |
Encalçolus Radi | Serena Luigi |
Oportolus Ranaldi | Severini Giocondo |
Pepo Ranucçali | Severini Giulio |
Oportolus Rodolfi | Severini Basilio |
Ruspus | Sorbelli Enrico |
Sectaldus | Tritoni Angelo |
Ugolinus Uctiani | Tritoni Giuseppe |
Ranaldus Varii | Tritoni Natale |
Matheus Viviani | Tritoni Nazzareno |
La vita ci mette di fronte ad esperienze meravigliose, purtroppo però esistono anche episodi tristi. Ne ho lasciati, due per me significativi, in fondo alla mia avventura.
Martedì 19 aprile 1988 leggo su un quotidiano:
Il vicebrigadiere dei Cc Rosati ucciso in un vero agguato. Qualcuno a Castel Madama racconta “Dicevano: lo faremo fuori”. I due ragazzi amici da sempre volevano forse vendicarsi dopo una multa e una denuncia per oltraggio. (Stefano Di Michele (19 aprile 1988) L’Unità)
Renzo con mille speranze nel cassetto era partito dal paesino alla volta della Capitale per realizzare i propri sogni, ormai spenti per sempre.
Tantissima gente, centinaia di carabinieri in divisa. E’ una commozione fortissima, che alla fine del rito funebre si è sciolta in un lungo applauso che dalla chiesa è arrivato fino all’altro capo del paese. Così ieri pomeriggio Castel Madama, ha dato l’addio a Renzo Rosati, il giovane vicebrigadiere assassinato la notte tra sabato e domenica da due giovani del paese. La piccola chiesa di San Michele, nella parte più aita della città, è stracolma già un’ora prima dell’inizio della funzione, celebrata dal vescovo di Tivoli Lino Garavaglia e dal cappellano dei carabinieri, don Giovanni. La salma è in una bara di legno chiara, avvolta nel tricolore. Per tutto il percorso, dall’inizio del paese alla porta della chiesa, decine di carabinieri fanno ala al corteo funebre. E dietro di loro migliaia di persone. «Era un bravissimo ragazzo. Intelligente, molto corretto, gentile ed educato. Ed era sempre sorridente», ricorda commosso nella piazza un abitante di Castel Madama… (Stefano Di Michele (19 aprile 1988) L’Unità)
E’ passato qualche anni, i nonni di Sara abitano ad Armenzano da sempre, lei adora letteralmente questo posto; quando non è lì sogna di tornarci il prima possibile. Non può stare lontano: dai ricordi legati alla sua infanzia, quando trascorreva interi pomeriggi ad osservare i comportamenti degli animali della fattoria dei suoi nonni, o quando «allattava» con il biberon l’ultimo nato tra gli agnelli; dal profumo delle ginestre che dal mese di maggio iniziano a colorare i prati e le colline circostanti; dal canto del cuculo; dal martellio del picchio maggiore che cerca nei tronchi degli alberi il suo pasto preferito, le formiche; dal variegato colore delle foglie autunnali che spaziano dal giallo arancio al rosso scarlatto al violaceo come se fossero macchie senza ordine sparse sulla tavolozza di un pittore. Come non sentire la mancanza, perché no, delle incursioni nel silenzio notturno degli «amici» cinghiali! Queste sono solo alcune delle piccole grandi emozioni che la Natura può offrire e che possono essere percepite solo da chi le sa apprezzare appieno.
Ma nulla in Natura avviene per caso e a volte ci ricordarci che è lei che comanda, in quei momenti ci sentiamo impotenti e proviamo paura. Siamo negli ultimi giorni del 1997 e a Sara sembra proprio che il mondo sia destinato a finire oggi, tanto sono intense e frequenti le scosse del terremoto che per mesi hanno tenuto con il fiato sospeso lei, gli altri abitanti di Armenzano e tutta la popolazione vicina all’epicentro del sisma. Le persone hanno cambiato umore, si percepisce un forte senso di tensione, di nervosismo misto a confusione e gli ambienti chiusi sono diventati luoghi ostili e fonti di pericolo.
Lei è una persona attenta e riesce a notare una differenza nel rapportarsi all’evento dei vari individui. A suo parere le nuove generazioni dimostrano insofferenza e trasmettono un forte senso di instabilità che poi viene percepito anche dai più piccini; gli anziani invece riescono a convivere molto bene con la paura cercando: di non annullare completamente le attività quotidiane e di aspettare. La sera ci si riunisce tutti insieme e sono proprio loro ad allietare le serate con delle barzellette e soprattutto con dei racconti del passato, catturando così l’attenzione di tutti, grandi e piccoli, distogliendo i pensieri dalla situazione di emergenza. Riescono a vivere e farti vivere il terremoto come qualcosa che comunque fa parte della natura, al pari del tramonto o della pioggia; anche di «lui» c’è bisogno. Nonostante molti di loro non hanno frequentato neanche la scuola elementare non credono a tutte le leggende inventate dai bontemponi: “…si formerà una spaccatura tra Marche e Umbria…” e altre sciocchezze del genere, mentre alcuni tra i più giovani trovano, non so come, un modo per dare adito a queste voci!
Anche gli animali hanno modificato il loro umore, molto spesso cani e gatti avvertono in anticipo l’arrivo delle scosse. Tra di essi il pastore maremmano bianco di Nottiano, fedele amico di un diacono austriaco, sembra specializzato nell’avvertire con dei lunghi ululati i tremori sotterranei.
Intanto in quei giorni in paese la protezione civile ha allestito le tende per permettere a chi ha la casa lesionata, o a chi ha semplicemente paura di dormire tra quattro mura, di trascorrere la notte al sicuro. Alcuni edifici hanno riportato danni gravi, ma non si sono verificati crolli; quindi con il trascorrere dei giorni, dopo le tende si passa alle roulotte, per poi ad assegnare i container alle famiglie con la casa inagibile. Anche la chiesa del paese in breve tempo viene ristrutturata, cercando di valorizzare i particolari ed esaltare le peculiarità tipiche di una chiesa di campagna. La ristrutturazione post-terremoto è stata l’occasione per dar nuovo lustro ad un paese trascurato dal tempo. Sara adesso percorre il sentiero mattonato realizzato in alto sulla rocca del paese da cui riesce a godere di un panorama mozzafiato, osservando le cime dell’Appennino umbro che è possibile scorgere grazie alla giornata particolarmente limpida.
Il suo B&B non ha subito lesione, essendo una struttura di recente costruzione realizzata con criteri antisismici, ma nonostante questo, nell’occasione delle scosse è stato possibile salvare dalle mensole solo qualche soprammobile. E’ passato qualche anno, la ricostruzione è ultimata, ma a Sara è rimasto ancora il ricordo di quando l’acqua della brocca sul tavolo aveva giorno e notte un continuo tremolio a monito di quanto gli uomini sono piccoli paragonati alla Natura.
Anche gli episodi tristi fanno parte della vita, occorre essere bravi a superare le difficoltà e ripartire, in modo che dopo un evento brutto ne segua uno così bello da farci dimenticare tutto. Oggi 2 Ottobre 2011 Armenzano festeggia un nuovo cittadino: si chiama Alessia ed è mia figlia.
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