“Mah…”
“…qui il telefonino non prende bene!”
“Avete l’ADSL, potrei collegarmi ad Internet?”
“Qualche negozio nella zona, un ristorante, un bar?”
Siamo così abituati alle comodità della vita moderna che ci sembra desueto non poterne usufruire ovunque. A me dispiace a volte non riuscire ad accontentare i nostri ospiti anche se pur su cose non dipendenti dalla nostra volontà; quando ciò capita, mi accorgo di quanto sia cambiata la società solamente in questi ultimi anni. Mutando le nostre abitudini, ci siamo anche progressivamente uniformati tra noi. La globalizzazione ha portato innumerevoli vantaggi nelle condizioni di vita delle persone, ma, in qualche modo ci ha fatto perdere l’identità e le caratteristiche che contraddistinguevano le nostre origini. Tendiamo sempre più a vestirci, mangiare, divertirci e, forse, a pensare tutti allo stesso modo, appunto, ciò è più evidente quando dobbiamo per qualche ragione fare a meno delle cose che il «sistema globale» ha reso normali.
A questo comportamento si oppone, a mo’ del solito contrappasso dantesco caratteristico dell’uomo, il desiderio di diverso e di inconsueto. Il turista ad esempio, quando viene in Umbria come da qualsiasi altra parte, tende ad essere attratto dal tipico e dal tradizionale e ciò avviene anche per gli ospiti che scelgono noi. Chi più chi meno, tutte le strutture ricettive e i luoghi turistici, sull’onda di questo trend, stanno cercando, soprattutto negli ultimi anni, di enfatizzare l’aspetto caratteristico del luogo dove sono collocate anche nel caso in cui di tipico non sia rimasto più niente. Il fenomeno dei falsi storici o delle «pseudo-antichità» è comunissimo nella zona, non è quindi strano trovare agriturismo con piscina e tutte le comodità in cui l’agricoltura è considerata un optional, ed è facile osservare, girando per il centro, turisti estasiati da una statua, da una nicchia o da una facciata di una casa che fino all’anno prima neanche esisteva. Mi viene da ridere, ma chissà quante volte sarà successo anche a me durante una qualche vacanze!
Nella carrellata storica fatta nei capitoli precedenti ho raccontato di come sia cambiata, o di come non sia cambiata, Armenzano nel corso dei secoli. Ora invece mi trovo a riflettere su come la modernità stia «contaminando» anche questa parte di mondo più di quello che sono riusciti a fare i millenni, sgretolando pian piano il monumento più importante mai costruito dall’uomo: la sua cultura e le sue tradizioni. Già agli inizi degli anni ’70, in cui c’erano soli vaghi sentori di questi cambiamenti, Vittorio Falcinelli scriveva sentenze profetiche:
La folcloristica va scomparendo sia nella sua forma tradizionale che in quella inventiva; si sta in fase di artificio, di appiattimento delle espressioni e questo avviene specialmente per l’estendersi dei mezzi della comunicazione audio-visivi: il tanto estendersi e il troppo usare di detti mezzi genera impoverimento d’invenzione tra i nostri popoli e quindi crea indifferenza e pigrizia. Quando c’è artificio, il folclore vero e proprio scompare; si accetta il «preparato», «l’importato» già pronto per la «convenzione» che diventerà manifestazione priva di sentimento e, a volte, si giunge al punto della totale estinzione del folclore genuino… (Falcinelli, Vittorio (1972) Per ville e castelli di Assisi)
L’occasione di trovarmi a inizio Novecento a contatto con i popolani del tempo è quindi per me una circostanza quanto mai propizia per cogliere gli aspetti della vita quotidiano ancora scevra dalle contaminazioni moderne.
Per il momento ho solo conosciuto i fondamentali del dialetto locale; meglio comporre qualche frase elementare di senso compiuto per prendere dimestichezza per poi approfondire con più facilità il resto. Una cosa indispensabile da sapere per iniziare è che in dialetto al posto del «lei» si usa il «voi»:
E’ venuto per vederci e darci un regalo. | E’ nuto a vedecce e dacce ‘n regalo. |
Non andare in nessun posto. | Nun gi’velle. |
Se avessi fame mangerei qualche cosa. | Se io esse fame, magnerebbe. |
Se avesse avuto soldi, avrei comprato la casa. | Si esse i solde, comprerebbe la casa. |
Credevo che fosse mio zio. | Pensavo che fusse ‘l mi’ zio. |
Digli che faccia ciò che vuole. | Dije ch’ha da fa’ quel che vòle. |
Non posso parlare affatto. | Nun posso discorre, per gnente. |
Non voglio parlare mai. | Nun vojo parla’ maje. |
Anche se dici la verità nessuno ti crede. | Anche che me dichi la verità, nun te crede nisciuno. |
Che fai? | Che fe’? |
Come ti chiami? | Commo te chiame? |
Ha detto che viene dopodomani o tra tre giorni. | Ha ditto che c(e) vène doppodomane o tra tre giorne. |
Gli ha detto di venire da me. | J ha ditto de veni’ da me. |
Che vuoi? | Che vôle?, che voje? |
Cosa vuole? | Che volete? |
Dovresti mangiare di più. | Avriste da magna’ d(i) piu’! |
Avresti dovuto dire la verità. | Avriste dovuto di’ la verità. |
Non può stare senza parlare. | Nun po’ sta’ si nun parla. |
Mi ha fatto capire tutto. | M’ha fatto capi’ ’gni cosa. |
Ti hanno visto fumare. | T’hon visto a fuma’. |
Non so che fare. | Nun so che fa’. |
Posso lavorare quanto voglio. | Posso fatiga’ quanto me pare. |
Ti hanno sentito cantare. | T’hon sentuto a canta’. |
Non smettere di cantare. | Nun smette de canta’. |
Vattene! Andiamocene! | Va via! Gimo via! |
Andatavene! | Gite via! |
Che se ne vadano! | Gìssero via! |
Mangiatene due altri pezzi | Magnètene du’ altre pezze |
Devo andare dal medico | Devo gi’ dal me(d)ico |
Sono ora pronto a conoscere la cultura «indigena», e quale miglior occasione dell’invito a cena di questa sera da parte di una famiglia contadina del paese.
La cena è il momento in cui la famiglia si riunisce dopo la giornata di lavoro, lavoro che dura dall’alba al tramonto. In ogni stagione dell’anno c’è qualcosa da fare: l’aratura dei campi, la semina, la falciatura, la mietitura, la trebbiatura, la scartocciatura, la vendemmia, la raccolta dell’oliva, il taglio della legna, poi ci sono gli animali da accudire, e infine i prodotti ottenuti vanno venduti nei mercati boari o nelle fiera dei vicini paesi. Partecipando ad uno di questi mercati mi accorgo di quanto strane e variegate siano le unità di misura impiegate quotidianamente per il commercio agricolo.
Ci sono le misure di peso in uso per i cereali e per le olive: la mina equivalente a 66,6 kg; lo staio: 33,3 kg, ovvero un terzo di quintale, o mezza mina; il coppo: uguale a 4,2 kg, quindi un ottavo di staio; il mezzo-coppo: pari a 2,1 kg; il sacco: pari a 120-133 kg a seconda del cereale che entrava nel sacco di canapa, quattro staia fanno circa uno sacco; il rubbio: ovvero otto staia, circa 250 kg, usato per grandi quantità di materiale.
Scopro che è comune per il tempo uno strumento in acciaio composto di un asta dentellata e di un peso scorrevole sull’asta, il suo nome è stadèra o stadiera ed è capace di portare generalmente circa 100 chilogrammi. La sua unità di misura è la libbra: pari ad un terzo di chilogrammo, suddivisa a sua volta in dodici parti dette once. Una libra è quindi 333 grammi, mentre un oncia pesa 30 grammi.
Per la misura della legna accatastata nel suo magazzino, il boscaiolo del paese usa il passo: l’equivalente del metro di oggi.
Per quanto riguarda le misure di capacità di liquidi si usa invece: il boccale con un valore pari a 2 litri; il barile con valore pari a 50 litri; e la foglietta cioè il mezzo-litro, quindi un quarto di boccale.
Il rischio di far confusione e di essere gabbato per me che non sono abituato a tutto ciò sembra abbastanza alto, se non altro perché, nella maggior parte dei casi, non esiste un riscontro oggettivo di tali unità di misura, che spesso variavano anche di molto da venditore a venditore.
Tante sono ancora le cose che mi piacerebbe approfondire di questo tempo passato. Una cosa che suscita la mia curiosità sono ad esempio gli antichi mestieri oggi scomparsi grazie o a causa del progresso tecnologico. Ne elenco solo tre, ma tanti se ne potrebbero aggiungere:
-La produzione del carbone:
i boscaioli tagliavano la legna e la caricavano sulla groppe degli asini o dei muli per portarla dove c’erano i bracieri fatti da loro stessi nella terra, per mezzo dei quali la legna veniva trasformata in carbone o carbonella. Sistemavano la legna ne «le cotte», in grandi mucchi a mo’ di piramide, in modo da consentire un minimo di circolazione d’aria al suo interno. Poi li coprivano con la terra, lasciando solo un pertugio nella parte più bassa da dove davano fuoco alla catasta sotterranea. Un fuoco che bruciava per diversi giorni e lentamente. Alla fine veniva tolta la terra e il carbone era pronto per essere portato nei depositi e poi venduto in città per le stufe e i bracieri delle casa.
-Il lavaggio del bucato:
Fare il bucato allora era un vero e proprio rito con una procedura tutta particolare. Prima di tutto c’era bisogno di sapone fatto in casa, direttamente da «sebo», cioè lo scarto del grasso del maiale e a volte anche del castrato. Questo grasso prima veniva fatto bollire, poi colato in stampi di legno e tagliato a pezzi grossi e scomodi da maneggiare. Quando poi c’era di lavare le lenzuola o la biancheria delicata, appunto le fasce per i bambini, allora si ricorreva oltre al sapone anche alla «scina», cioè un recipiente di terracotta a forma di culla. Dentro si metteva il bucato, sistemandolo ben bene da recuperare tutto lo spazio, iniziando dal fondo con gli indumenti più sporchi, e si copriva con un canovaccio bianco e pulito. Sopra o si spandeva la lisciva già pronta o direttamente la cenere del focolare, quella delle ultime braci che venivano messe da parte la mattina, quando era diventata bianca e finissima da essere morbida come il borotalco. Per ultimo sopra la cenere veniva steso un altro canovaccio e si versava sopra l’acqua bollente preparata col caldano sopra il fuoco. Il liquido che ne veniva fuori dalla cannella di scolo posta ad un lato in basso del recipiente era il «ranno», cioè un ottimo detergente che spesso era usato per lavare anche i capelli: “era l’unico shampoo che conoscevano a quel tempo”… Il bucato era pronto quando dal fondo usciva il «ranno» abbastanza caldo. A questo punto non rimaneva che lasciarlo riposare tutta la notte. Il mattino dopo si tiravano fuori i capi e si andava al pozzo o alla fonte per risciacquarli e spenderli sull’aia ad asciugare.
-La lavorazione della canapa:
I fasci di canapa tagliata venivano messi ad essiccare al sole poi lì raccoglievano e, col carro tirato dai buoi, lì portavano giù alla «farma» dove c’era un gran fosso profondo pieno d’acqua corrente… Una volta giunti alle fonti si immergevano i fasci lasciandoli per alcuni giorni. Il lavoro era eseguito da quattro persone: il primo estraeva i fasci e li slegava; il secondo li stropicciava e li sbatteva nell’acqua; il terzo continuava il lavaggio così che la fibra cominciava a distaccarsi dal fusto; l’ultimo completava il lavaggio, perché aveva l’acqua più pulita, essendo il primo rispetto alla sorgente. I mazzi così lavati venivano consegnati alle donne che provvedevano a stenderli sulla riva, formando tanti capannelli rotondi. Appena la canapa era ben asciutta si provvedeva alla maciullazione… Il taglio, l’essiccatura, macerazione, costringeva la famiglia a lavorare per oltre un mese, senza neppure la sosta della domenica… Una grande fatica che lasciava una puzza di marcio che imbrattava gli abiti e che le canapine se la portavano addosso come un marchio. E non c’era verso di mandarla via, A questo punto il lavoro non era finito. La canapa così prodotta veniva portata alle proprie case. Una parte veniva fatta lavorare dai cordai, per ottenere le corde di diverse grandezze per l’uso agricole, e l’altra la si portava al canapaio… (Piccolo, Cosimo (2007) La magia dell’aia: scene di vita contadina)
E’ quasi ora di cena e mi sta venendo un po’ di appetito. La tavola imbandita che mi aspetta è naturalmente diversa da quella che sono abituato a vedere nel XXI Secolo. La povertà contadina impone per quasi tutte le famiglie un menù assai meno ricco e variegato di quello moderno, anche se, parlando di genuinità delle pietanze, quello che mangerò surclassa di gran lunga il cibo moderno. La carne è ancora un lusso ed è possibile mangiarla solo in rare occasioni. Alcuni cibi sono poco comuni da noi e quindi frequentano raramente le mense popolane, come ad esempio le arance. Durante le feste comandate e le cerimonie però tutto cambia e per un giorno si lasciano da parte le rinunce e ci si concede qualche sfizio. A Carnevale ci si delizia con «castagnole» o «strufoli», la cui ricetta prevede: un impasto con uova, farina, zucchero, liquore, lievito in polvere e burro; si divide la pasta ottenuta in tante palline che si friggono poi nell’olio bollente, e infine si ricoprono con miele o zucchero a velo.
Piuttosto diffuso, invece, è la consuetudine di mangiare frittelle il giorno di San Giuseppe; questo dolce tipico si prepara mescolando tra loro i seguenti ingredienti: riso bollito, uova, zucchero, farina, cannella in polvere, e friggendo il composto, a cucchiaiate, in olio bollente. Comunque, il riso bollito può essere sostituito con pancotto, fiori di cavolo o con polenta. Una volta cotte, le frittelle vengono cosparse di zucchero o cannella in polvere. (Gubbini, Maria Pia (1970) Le tradizioni popolari…nella frazione di Armenzano)
Pasqua è sinonimo di pizza dolce e torta al formaggio.
La pizza dolce si fa impastando uova, zucchero, farina, burro, liquore, frutta candita tagliata a dadini, uva passita e lievito; quindi si distribuisce l’impasto nelle teglie di latta o d’alluminio, si lascia lievitare e si cuoce a forno ben caldo. Lo stesso procedimento si segue nel preparare la torta al formaggio, i cui ingredienti sono: uova, farina, formaggio grattugiato (parmigiano e pecorino), burro, sale e lievito. (Gubbini, Maria Pia (1970) Le tradizioni popolari…nella frazione di Armenzano)
In quest’ultimo caso tradizione vuole che si aggiunga l’ingrediente segreto: un ramoscello di ulivo benedetto infilato nelle torte prima di infornarle.
Dolce adatto a tutte le occasione è il «torcolo»: ottenuto cocendo al forno una pastella composta di uova, farina, zucchero, latte, liquore e lievito in polvere. Perfino la cosa che a noi oggi sembra più banale dimostra di possedere un fascino inaspettato. Vale la pena a questo proposito ascoltare un testimone oculare del rito della produzione del pane:
dopo aver impastato la farina pari al fabbisogno settimanale della famiglia e disposta a fontana sulla madia, vi si versava una pentola di lievito, sciolto precedentemente in acqua calda. Si ricopriva con uno strato di farina e sopra vi si tracciava un segno della croce. La «massa» veniva preparata la sera precedente, e durante l’inverno veniva riscaldata da un recipiente di acqua bollente o con un braciere per agevolare la lievitazione. Di prima mattina le donne provvedevano al confezionamento del pane.
…si avvicinava alla bocca del forno la tavola con le file del pane e con una pale di legno (la ‘nfornatoia) manovrata da mani esperte le si infornavano.
“Come dimenticare il profumo di quel pane appena sfornato! Quel giorno era festa per tutta la famiglia e quel profumo che si spandeva per tutta la casa mi inebriava. Appena era tiepido da poterlo mangiare, lo ripulivamo dalla cenere con uno scopettino e lo ponevano nella madia”. (Piccolo, Cosimo (2007) La magia dell’aia: scene di vita contadina)Stasera a cena insieme al pane ancora caldo ci aspetta la «scafata» con fave e bietole. Alcuni ci mettono anche pancetta o guanciale o salsiccia sbriciolata… (Salari, Gabriele (2008) Diario umbro: un anno sul monte Subasio tra santi, lecci e profeti)
Chiedo alla padrona di casa di cui sono ospite informazione su ricette tipiche della tavola contadina di tutti i giorni: .Il «Pancotto»”
Ho l’occasione e non so resistere alla mia passione: i dolci, e chiedo di nuovo alla gentile signora la ricetta di un dolce tipico delle feste: la «Ciaramicola»
Dopo cena mi trattengo a parlare, davanti al focolare ed ad un buon bicchiere di vino, con gli uomini della casa. E’ proprio il grande focolare annerito, con l’aiola in pietra arenaria rialzata di 20 cm dal pavimento, a dominare l’interno di questa semplice abitazione.
Nel vano del camino dei grossi chiodi portano oggetti di vario tipo: treppiedi per appoggiare le «stufarole» sulla brace, forchettoni per rimestare il cibo nel paiolo, un «tostino» girevole da agganciare alla catena del focolare per tostare l’orzo, una paletta e delle molle da fuoco, vari spiedi e un soffietto per alimentare la fiamma. Sulla mensola del camino trovano posto il pestarello del sale e il ferro da stiro, appesi tutto intorno lumi ad olio, lanterne ad acetilene, la fiaschetta di ferro per il petrolio e varie forbici da potare. A terra è sistemata la «scina» o «coccia» di terracotta, un grande recipiente che poggia sul «bucataro», il tutto sollevato su un treppiedi di legno. Dall’altro lato del camino, appesi alla parete numerosi oggetti: una mescola di legno per la farina, un capestìo per scegliere i legumi, una insaccatrice per le salsicce, una cesta per le erbe e due passini. Sopra una mensola vari orci e «concole» per olio, vino ed acqua da portare al campo e diversi vasi per lo strutto, insieme a pignatti ferrati per cucinare i fagioli o le minestre. Appoggiato a terra, un tronco di olmo svuotato usato come contenitore della crusca. Al centro della parete si apre una nicchia architravata in legno dove trova posto l’acquaio di pietra arenaria, sormontato da una finestrella che si affaccia sull’aia. Sul piano dell’acquaio sono poggiate broccole e mezzine per l’acqua, in rame, e un broccolo di terracotta. Sotto l’acquaio c’è posto per i paioli, a sinistra una grande rastrelliera porta vari tegami, rami, scodelle, setacci, un ferro per fare i «passatelli» un «inghiottirolo», delle «battilarde» e delle vecchie roncole da usarsi per fare il battuto. Appeso al muro un «grattacacio» a manovella. Sulla stessa parete si apre la porta della camera da letto e sopra la porta un santino, l’immagine di Sant’Antonio. Ogni oggetto risponde ad una collocazione logica dettata dalla consuetudine d’uso, da criteri di funzionalità e da una stratificazione di significati simbolici. Si viene a stabilire una sorta di legame reciproco tra le varie parti dell’ambiente. (http://www.casecontadine.com)
Tra una chiacchiera e un sorso di rosso, porto la conversazione su un argomento che mi incuriosisce: i proverbi, appunto la saggezza dei popoli. Vediamo cosa riesco a scoprire, forse qualcosa che mi è già familiare.
Con la proprio vita semplice il «montanaro» è direttamente a contatto con la natura e con gli animali del suo mondo e sono proprio quelli a dare ispirazioni a molti proverbi o detti, la cui saggezza partendo da qui scorre poi, come acqua di sorgente, dal monte a valle in tutti gli altri territori della zona.
Compagni se pur sgraditi della vita dei contadini di Armenzano sono ad esempio la volpe e il lupo, ed è osservando il loro comportamento che, in rigoroso dialetto, nascono:
– La volpe perde il pelo, ma no’ ‘l vizio.
– Nun te presentà lupo sotto veste d’agnello.
L’agnello poi come anche la pecora o la gallina sono animali allevati in collina e comunissimi nella zona:
– La peqra ch’ bela, perde ‘l boccone.
– Quando la gallina nera canta, la padrona manca.
Il cane è utile al pastore come avvisatore, ma se abbaia è più difficile che morda; è un po’ la psicologia di numerose persone che svuotano la loro ira solamente con abbondanti chiacchiere e improperi:
– Cane ch’abbaja, nun mosca mai.
Animali come il bue e il somaro sono compagni da secoli della nostra gente, utili sia per lavorare i campi sia per trasportare cose per mulattiere e sentieri, risultando spesso l’unico mezzo di locomozione su tali monti e colline. Anche loro dunque apportano un contributo a detti e proverbi:
– ‘l bove cattivo arporta l’aratro a casa.
– Lega ‘l somaro du’ vole ‘l padrone.
E’ proprio quest’ultimo compagno di vita del «montanaro» a farlo soffrire per l’ingratitudine:
– ‘l somaro quanno l’è tirato fora dal fango, te tira calce.
Il somaro beneficato che tira calci simboleggia la persona ingrata, e devo ammettere che rende bene l’idea.
I proverbi servono a divulgare insegnamenti di vita, esprimendone tali concetti con termini vicini alla realtà quotidiana. Per ammonire i faciloni e consigliare un buon metodo di fare le cose si può dire:
– Chi vôl prende’ du’ lepre ‘n compagnia, una ne perde e l’altra scappa via.
– Chi fa cento e non fa uno, perde tutto e sta a digiuno.
Non mancano ancora proverbi legati a oggetti della vita quotidiana o della natura che circonda il «montanaro»:
– Ogni canestraccio è bono per la vendemmia, ovvero, non conta il recipiente con cui si portano cose di valore per farle rimanere tali.
– Che è, hai pisciato sull’ortica? Si dice a chi è imbronciato e di cattivo umore, o a qualcuno a cui è accaduto qualcosa di triste.
Nun lascia’ la strada vecchia pe’ la nova: chi è stato tra i monti, sa come sia pericoloso lasciare, di notte specialmente, il sentiero conosciuto per farne un altro appena intravisto. Ma è anche evidente come l’idea del progresso non debba mai prescindere dall’uso vecchio, da tradizioni e modi secolari di vivere.
Così l’origine famigliare ha sempre un enorme peso nella condotta dell’individuo, come la stecca buona mostra la radice sana della pianta tagliata. (Falcinelli, Vittorio (1972) Per ville e castelli di Assisi) …quindi: – La stecca vien dal ceppo.
Aggiungiamo:
– Chi semina spine, nun vada scalzo;
– Chi va via ‘n compagnia, nun môre per la via;
– L’acqua ferma puzza;
– I sterpe non honno orecchie, ma le mettono;
– La pera quanno è fatta, cade da sé;
– Chi n’ ha bona testa, ha bone gamme;
Se qualcuno è cattivo, malizioso e maldicente, pensi alla sua “facile lingua”, e si premunisca, che troverà altrettanti ostacoli e posizioni dure nei suoi confronti.
Utile è la compagnia perché si rende più facile la strada o la vita, e resta più difficile lo smarrimento, l’isolamento, la morte, la fine. La solidarietà è sempre efficace!
Ma guai anche ai “pozzi cupi” perché l’acqua se non cammina, ristagnando dà cattivo odore, si corrompe; deve scorrere: chi mai si confida, mai si consiglia o mai ha desideri da esporre, è facilmente “acqua” che rovinerà!
Comunque, la prudenza è buona regola di condotta, è legge che modifica la curiosità, spesso maliziosa, di parlare; e deve tenersi presente perché c’è sempre chi può scandalizzarsi del tale o talaltro discorso; e quando a volte, non nuoce sul momento può nuocere più tardi, crescendo; ricordando…
Sicuramente chi non ha stabilità morale nelle sue azioni, non ha serietà di convinzioni, ma di convenzioni, e alla fine… presto o tardi si tradisce… cade come la «pera fatta», senza accorgersi inconsciamente, ma sicuramente la «baracca si smonta».
Infine se qualcuno è meno provvisto di memoria, avrà più energia fisica per sopperire a quanto resta, in ogni modo, necessario a farsi. (Falcinelli, Vittorio (1972) Per ville e castelli di Assisi)
Annoveriamo ancora proverbi legati specificatamente alla natura e agli agenti atmosferici legati ad essa:
– Si la tramontana n’arpulisce, acqua o neve non fallisce.
– Dòppo tre gelati [tre mattine con brina], ‘na nevata.
– Quanno ‘l monte [Subasio] fa ’l cappello [nebbia], artornerè co’ l’ombrella.
– Celo a pecorelle, acqua a catinelle.
– Arco de la sera, bôn tempo se spera; arco de la matina, rìempe la marina.
– Sì s’arnuvla su la brina, piove prima di dimatina.
Per rimanere in tema, cito alcuni detti legati a particolari periodi dell’anno e alle feste comandate, a ricordare il ciclo della vita del contadino legato al tempo che trascorre e alle stagioni:
– Si piove per S.Bibiana, dura 40 giorni e ‘na settimana.
– Finito Carnevale, finito amore; su la botte del vin ce nasce ‘l fiore.
– Quanno le grovole [anitra selvatica] vanno in Maremma [verso Sud], pija la cena e fa’ la legna; quanno vanno ‘n montagna [verso Nord in primavera], pija la vanga, e vanga.
– San Pietro: pija la falce e vaje dietro [svelto a mietere ch’è ora].
– Si di marzo tròna, la vendemmia sarà bòna.
– Santa Caterina [25 novembre], 1ascia via la janna e curre ta l’uliva.
– A San Benedetto, la rondine sul tetto.
– La Madonna Candelora, se ce nengue e se ce piove, de l’inverno semo fora, se ce dà sole e solello, quaranta giorni d’invernicello.
– A San Martino, ogni mosto diventa vino.
– A Santa Caterina o acqua, o neve o brina.
Anche gli aspetti attinenti al culto hanno una loro rilevanza nella vita del contadino che si rivolge spesso al divino per assicurarsi un buon raccolto o per evitare una malattia. Il buon Dio a tutti provvede, dando o mandando, volendo o permettendo, quanto già per natura si è capaci di dare, di ricevere, di donare, di sopportare, di superare e se si chiude una porta non bisogna mai disperare:
– Dio manna ‘l freddo secondo i panne.
– Il Signore chiude ’na porta e apre ‘n portone.
Ci sarebbe da disquisire per ore, ma senza farla troppo lunga ne aggiungo solo pochi altri:
– Tempo di carestia, pan dl janna è bono: nell’indigenza occorre essere pronti al sacrificio senza poter sprecare cosa alcuna.
– Ogni tante anni e tanti mese, l’acqua aritorna al suo paese.
– Il piatto de gli altri se vede sempre più grosso.
– Quanno il piccolo parla, il grande ha già parlato.
– E’ mejo ave’ dal giudice ‘na mano, che dal proprio avvocato ’n braccio sano.
– ‘l monno è pieno de guai; chi n’ha pochi e chi n’ha assai.
– La gola ha ‘l buco stretto, ma se magna la casa con tutto ‘l tetto.
– Chi vôle vada, e chi nun vôle mandi.
– Chi parla troppo, sbaja assai.
Fa piacere notare che i proverbi, pur vantando una storia secolare alle spalle, mantengano valenza ed utilità anche al giorno d’oggi!
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