Turista ad Armenzano – 4. Un matrimonio da non perdere

Categorie: Armenzano, Perugia

Da Assisi a Perugia per un matrimonioDa alcuni anni si tende ad usare con maggior frequenza termini che derivano dall’inglese, con lo scopo di rendere più accattivante l’argomento di cui si parla. Dobbiamo ammettere ad esempio che «Bed and Breakfast» in italiano suonerebbe «Letto e Colazione», sicuramente più comprensibile ma, chiacchierando con un amico, non ci sogneremmo mai di dire: “Sai, lo scorso fine settimana sono stato in una struttura ricettiva con trattamento letto e colazione!”, suona malissimo. La forma però non fa la sostanza, i B&B come il nostro prendendo spunto dalla tradizione nord europea, sono case private dove i proprietari ospitano occasionalmente turisti, accogliendoli in parti non impegnate della propria abitazione principale. Dal canto nostro, abbiamo cercato di rendere la casa di famiglia accogliente e il più somigliante possibile ad una struttura di dimensione e di prestigio maggiore. Sia l’accoglienza meno asettica e meno formale di quella di un hotel, sia l’aspetto, infondono in ogni caso nella persona che arriva l’impressione d’essere ospite nella residenza di un amico o nella loro seconda casa. A noi piace dare quell’impressione e le persone che vengono sono trattate come faremmo per amici o parenti. Naturalmente, quando gli ospiti non fanno parte tutti dello stesso gruppo, occorre avere un maggior contegno per fare in modo che tutti si trovino bene. Animali di piccola taglia, indumenti o pacchetti in giro negli ambienti comuni, chiasso, e disordine rischiano di disturbare e addirittura rovinare la vacanza degli altri.
C’è capito di fare volentieri una deroga a queste norme di buon comportamento nell’occasione in cui vennero da noi un gruppo di ospiti di un matrimonio, che si sarebbe celebrato la sera stessa ad Assisi. Arrivati in ritardo da noi, dovevano ancora cambiarsi, erano visivamente agitati e avevano con loro un’intera collezione primavera-estate di vestiti, che dislocarono in ordine sparso per tutta la casa! Poi tutto si concluse bene, anche perché erano i soli ospiti di quel giorno.
Nella mia immaginaria peregrinazione nel tempo mi trovo ora alle prese con un qualcosa che si avvicina molto ad un «déjà vu». Mi sono appena svegliato e tutto il mondo intorno a me è in fibrillazione, mia moglie e gli ospiti si muovono in maniera casuale nelle stanze, portando avanti e indietro vestiti, scarpe, cappelli e paramenti di ogni genere. Che succede? Ah, me n’ero completamente dimenticato, il 28 giugno 1500 si celebra l’evento più importante di fine secolo, il matrimonio tra Astorre Baglioni e Lavinia Colonna, e noi, insieme alle personalità di spicco di Assisi e Spello e ad alcuni nostri ospiti venuti da fuori, abbiamo l’onore di partecipare! Onore? Naturalmente anche stavolta mi sono fatto incastrare! Me ne sto tranquillo a casa mia e mi costringono a intraprendere un viaggio verso Perugia agghindato di tutto punto in un periodo di storia in cui le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Tutta l’Italia è terra di conquiste e scorribande per i soldati di ventura e noi, in compagnia dei nobili del luogo con preziosi doni al seguito, potremmo essere facili prede.
La storia offre nel periodo che va dal XIII al XIV secolo opportunità enormi a chi sa usare le armi e il cervello. I loschi figuri di cui parlo sono mercenari forestieri ingaggiati individualmente per prestare il proprio servizio militare a compenso. Visto il sempre minore impegno dei cittadini nelle milizie interne comunali, si fa sempre maggior ricorso a chi la guerra la esercita di mestiere. Alcuni, i più capaci e valorosi, riescono a volte addirittura ad impadronirsi dei comuni di cui sono al servizio, approfittando, secondo le circostanze, dei passi falsi di committenti deboli, incapaci e in guerra tra loro per il mantenimento del potere. Proprio chi è assoldato per aiutare il reggente a consolidare il governo è anche pronto a strapparglielo di mano. I condottieri e i cavalieri di valore portano non di rado il loro signore di turno alla sconfitta per poi sostituirlo nella gestione del potere, in un intreccio di passioni, tradimenti, vendette, assassini e quant’altro occorra pur di raggiungere il dominio.
Elenco di seguito, ad avvalorare la mia tesi, solamente i nomi dei più importanti capitani di ventura che si succedono nei decenni e che a diverso titolo: si appropriano, assediano, saccheggiano, distruggono o depredano beni nei dintorni di Armenzano; tutta gente che facilmente potremmo incontrare nel cammino. Nella seconda metà del 1300 rivendicano interessi in zona: per la parte ghibellina Federico da Montefeltro, signore di Urbino; per quella guelfa Cantuccio Gabrielli, governatore di Gubbio; sempre per i guelfi Guido Orsini, conte di Soana; Fra’ Moriale di Barbona, signore d’Aversa; il guelfo Ugolino da Montemarte, conte di Corsara; il marchese Alberto Sterz; Anichino di Baumgarten, signore di Caraglio; Flach di Risaci, proveniente da Costanza; il tedesco Enrico Paher; Pietro della Corona, signore di Angri; Antonio da Correggio; Alberico conte di Barbiano; Michelotto dei Michelotti di Perugia; Rinaldo Orsini, conte di Tagliacozzo; Everardo della Campana, d’origine Tedesche; il conte Corrado Lando; Guido d’Asciano; Bernardo della Sala, originario dell’Auvergne; Ugolino Trinci, signore guelfo di Foligno; Brandolino Brandolini di Forlì; Ceccolo Broglia di Trino Vercellese; Biordo dei Michelotti, signore di Perugia; Ceccolino dei Michelotti, fratello di Biordo; Martino da Faenza; Lorenzo Attendolo di Cotignola; Paolo Orsini, signore di Narni e Orvieto; Gentile conte di Carrara, Muzio Attendolo Sforza di Cotignola.
Poi dall’inizio del 1400 arrivano in successione: Antonio da San Severino Marche; per i ghibellini Ottobono Terzi di Parma; il toscano Giovanni Da Fighino; Mostarda da Forlì; Ciucio di Paterno; Antonio Balestrazzo di Piacenza; Crasso da Venosa; Ludovico Gabriotto Cantelli di Parma; Bindo da Monopoli; Pandolfo Malatesta signore di Bergamo e Brescia; Braccio Fortebraccio da Montone; Guidantonio da Montefeltro, conte di Urbino; Riccardo di Modigliana, conte di Bagno di Romagna; il dolce nei modi ma altrettanto astuto Gattamelata di Narni; Carlo Malatesta, signore di Rimini; Giannetto d’Acquasparta; Ludovico della Costa di Assisi; Bernardino degli Ubaldini; Lionello dei Michelotti di Perugia; Ruggero Cane Ranieri di Perugia; Ludovico della Costa di Assisi; Angelo della Pergola, da figlio di poveri contadini a conte di Biandrate; Matteo di Provenza; Guido da Bagno; Oddo di Montone figlio naturale di Braccio da Montone; Cherubino da Perugia, signore di Città della Pieve e cognato di Braccio di Montone; Antonuccio dell’Aquila; Niccolò Fortebraccio, nipote di Braccio di Montone; Taliano Furlano di Cividale del Friuli dalle umili origini; Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini e figlio naturale di Pandolfo; il figlio Jacopo conte di Sulmona e il figlio adottivo Francesco; Baldovino da Tolentino signore di Montefalco e Trevi; i fratelli Francesco Sforza duca di Milano e Giovanni Sforza, signore di Teramo; Micheletto Attendolo signore di Acquapendente; Guido Fiumi d’Assisi conte di Sterpeto; Pietro Giampaolo Orsini signore di Forlimpopoli; Antonio da San Severino, detto Ciarpellone; l’altro figlio di Pandolfo, Domenico Malatesta, signore di Cesena; Simonetto da Castel San Pietro; Dolce dell’Anguillara; Cristoforo, signore di Tolentino; Ludovico Gonzaga, marchese di Mantova; Gentile della Sala, signore di Orvieto; Federico da Montefeltro di Gubbio, conte e duca di Urbino; Antonello della Torre di Napoli, conte di Sterpeto; Pietro da Somma; Matteo da Capua, duca d’Atri; Roberto Malatesta detto il Magnifico, signore di Rimini e figlio naturale di Sigismondo Pandolfo; Guidobaldo da Montefeltro di Gubbio, duca di Urbino e signore di Gubbio; Camillo Vitelli di Città di Castello; Mariano Savelli, signore di Palombara Sabina, Castel Gandolfo e Ariccia; Giulio Cesare da Varano, signore di Camerino e genero di Sigismondo Pandolfo Malatesta.
Naturalmente nella lista ho volutamente lasciato fuori la famiglia Baglioni presso cui abbiamo intenzione di dirigerci; in molti avrebbero meritato menzione, ma di loro avrò modo di disquisire.
Mentre ci prepariamo alla divertente giornata, torno a ricapitolare gli avvenimenti principale successi ad Armenzano in questo periodo. Nel tardo Medioevo il contado si arricchisce di una miriade di insediamenti laici e religiosi. Questa fioritura, o meglio rinascita, è da riconnettersi all’incremento demografico dovuto alla disgregazione delle proprietà fondiarie. Questo frazionamento del territorio in parti elementari ha come conseguenza una mobilitazione demografica e una ridistribuzione della popolazione. In una prima fase perdura l’insediamento aggregato e quello di altura e solo più tardi, a seguito di nuove forme di concessione e conduzione delle terre, si sviluppò una progressiva attrazione degli abitanti verso la pianura. Nel censimento del 1232 il comune di Assisi conta 2254 focolari, ripartiti tra 52 balìe. La balìa più popolosa ne ha 94, la più esigua solo 8. Ad Armenzano ve ne sono 40 per un totale stimato di circa 300 persone; nella successiva rilevazione della metà del secolo XVI diventeranno 52 fuochi e cioè circa 400-500 persone.
Come prevedibile, subito dopo la morte di Napoleone incominciano i problemi e, già nel giugno del 1257, i suoi figli Umbertino, Bonconte e donna Bionda rilasciano nella chiesa di Sant’Agata quietanza per certi danni a Egidio di Aliotto e nell’ottobre di quell’anno, la stessa Bionda, nella sua qualità di tutrice del figlio Napoleonuccio, vende a Paolo di Pietro, giudice di Spoleto, la terza parte che ad essa spetta della rocca Paida. Il resto della rocca non tarda a passare di mano perché gli altri due eredi la vendono a Gidiuccio Beccari di Spello nel 1260 e il figlio di questi, il conte Egidio, la rivende a sua volta ad Assisi nel 1289. La suddetta vendita dà presto luogo a una complessa vertenza tra i comuni di Assisi e di Spello. Dopo l’acquisto, il Comune di Spello occupa la rocca, ma gli uomini di Assisi, con al comando del podestà e del capitano, cavalcano subito alla sua riconquista, vi pongono la bandiera e vi nominano persino un sindaco allo scopo di recuperare, mantenere e governare il potere.
Il comune di Assisi nel 1271 finisce per comprare addirittura l’intero castello d’Armenzano dai figli di Napoleone. Gli storici, data la poca rilevanza attribuita ai successori del signorotto defunto, non sono neanche concordi sui loro nomi. Se fino ad adesso, in base al testo di Claudio Menichelli, li conosciamo come Umbertino e Bonconte, ora diventano Abertino e Ugolino come scrive Antonio Cristofani in «Storie di Assisi»; la sostanza è che ben presto si sbarazzano di tutto il vendibile, comprese le terre e le dipendenze, ricavandone la somma di 2000 libre di denari cortonesi. Il Comune compra, insieme alle terre e alle case, tutti i diritti del feudatario sui suoi uomini, ma concede loro subito un’affrancazione, servendosi di tale strumento per disgregare in parte il potere feudale. Il castello si rivela così importante da suscitare continue liti tra Spello e Assisi, specialmente dopo l’acquisto sopra citato della Rocca Paida da Egidio di Beccario.
Nel 1300 si pongono le basi della lingua italiana grazie all’apporto fondamentale di Dante Alighieri. Alcuni termini di allora sono rimasti oggi a testimonianza del passano, come ad esempio il nomi delle località. Il termine «piaggia», che proprio in quegli anni acquisisce il significato di salita montana, generalmente brulla e desolata che inizia dopo un breve tratto pianeggiane, calza a pennello con la conformazione della località «Piaggia di Armenzano». Mi hanno colpito, appena le ho lette, le parole che il Fortini spende per spiegare il significato di un termine a prima vista così banale:

Rievochiamo ancora l’immagine di Dante all’uscita della “selva selvaggia”, per cominciare la salita del colle: “…Ripresi via per la piaggia deserta, – si che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso. – Ed ecco quasi al culminar da l’erta…” (Inf. I, 28-31).
E quale ricchezza, in questi vocaboli, di sentimento e di poesia!
Emergono, per virtù della musica di un nome, paesaggi scomparsi, fioriture trascorse, acque disperse nell’oblio del tempo inesorabile come una volta, l’anima s’arresta pensosa alla svolta di una strada, sopra un argine erboso, nella cavità di una roccia, per il declivio di un colle, nel folto di una selva, in una prateria al tempo del fieno maturo. (Fortini, Arnaldo (1959) Nova vita di San Francesco)

Particolarmente forte è il rapporto tra il potere politico locale assisano e l’ordine francescano. Lo statuto comunale del periodo, infatti, vieta il lascito o la vendita di edifici cittadini a qualsiasi ordine maschile mendicante escluso quello Francescano. Questo spiega l’assenza in Assisi di chiese e conventi maschili di altri ordini. Ad Armenzano alla metà del 1300 sono presenti due chiese che dipendono appunto dai frati di San Rufino: quella di Sant’Angelo e Santa Maria. Quest’ultima paga al convento ogni anno una decima di trenta soldi. Spesso, qui come nel resto dell’Europa, chi se lo può permettere, forse per garantirsi un posto migliore nell’aldilà, cede, alla propria morte, una parte dei beni al luogo di culto a cui è più devoto. Pascuccio di Armenzano è tra quelli:

1348 ag. 1, castello di Armenzano, distretto di Assisi.
Testamento di Pascuccio del fu Vagni di Puccio da Armenzano, in cui sono disposti: legati in favore della chiesa di S.Maria di Armenzano, di parenti e di altre persone; erede, Tommasuccio di Mascolo; esecutori… (Nessi, Silvestro (1991) Inventario e regesti dell’Archivio del Sacro convento di Assisi)

La situazione politica del tempo, come accennavo poco fa, non è delle più tranquille e occorre continuamente difendersi da questo o quel signorotto:

Si faceva anco più gravi i timori de’ cittadini per lo passaggio di Carlo di Durazzo e delle genti sue nel nostro contado: per la qual cosa a dì 20 settembre i magistrati d’Assisi mandavano Nicoluccio di Sassolo loro ambasciatore al comune di Perugia a dimandarne aiuto di genti per guardar la città: e mandavano similmente Mascio d’Enicurbato al castello di Armezzano…a curare che i presidii ivi tenuti dal nostro Comune facessero buona guardia. …E questa pratica ebbe miglior successo, perché Carlo, compostosi per denari con la città, sgombrò dal territorio. (Cristofani, Antonio (1959) Le storie di Assisi)

Non è desueto che, in periodo avversi, si possa perdere il dominio di vasti territori, e, in frangenti favorevoli, si abbia la possibilità di estendere la propria giurisdizione. Nel 1408, Loddovico di Armenzano, forse un discendente di Napoleone, acquisisce dei territori lontano dalla sua terra di origine, in località Postignano, oggi frazione di Nocera Umbra. (Bollettino della deputazione di storia patria per l’Umbria (1970) volume 67)
“Allora, pronti per partire?”
Sembra che il processo di vestizione sia finito e finalmente si può andare…macché, mi dimenticavo che occorre aspettare il medico che abbiamo chiamato per curare un nostro contadino che si è fatto male. In lontananza lo vedo arrivare dal sentiero in terra battuta che porta a casa, si chiama Abramo è ebreo, e non è la prima volta che viene da noi.
Nel Medioevo si fa largo uso di medici come lui che in genere costano assai meno dei colleghi cristiani. L’assegnazione di una condotta di un medico ad un ebreo prevede per il Comune una spesa che di rado superava i 25 fiorini l’anno, mentre la stessa condotta, se sottoscritta con un cristiano, comporta una spesa che può superare anche i 100 fiorini. I motivi per cui i medici ebrei sono disposti a lavorare a stipendi quasi da fame sono da ricercarsi soltanto nell’aspirazione ad un’ascesa sociale, che essi sono disposti ad ottenere anche a prezzo di sacrifici nella prospettiva dei benefici civili che sperano di accompagnare al conferimento dell’incarico.
Un documento ricorda la visita del nostro dottore:

Nel febbraio del 1431 era un altro contadino, questa volta di Armenzano, che si faceva trattare dal medico una grave frattura al cranio: “questi presenta una ferita alla testa, che è da considerarsi molto pericolosa, ed è necessario, per curarla e medicarla, che gli si radano i capelli e si scopra la ferita in modo da poter esaminare le ossa del cranio”. (Toaff, Ariel (2007) Il vino e la carne: una comunità ebraica nel Medioevo)

Il chirurgo Abramo di Sabatuccio è un esperto di ferite alla testa e di interventi come quello che si appresta a fare ad Armenzano ne ha eseguiti molti: una donna ferita gravemente al capo dal marito al termine di una scenata di gelosia; un cittadino di Assisi che è caduto e si è fratturato il cranio; una donna ferita a coltellate dal cognato; un cittadino con il cranio lesionato da un calcio di un somaro, ecc… I clienti di questo medico appartengono a tutti gli strati sociali: cittadini o contadini, mercanti e artigiani, chierici e artisti. Il paziente lo paga al termine del trattamento o con denaro o con prodotti dei campi come: olio di oliva o vino, naturalmente preparato secondo le norme ebraiche.
Appena arrivato si accorge subito della gravità dell’incidente, solo la sua competenza potrà riuscire a far finire tutto per il meglio. In ogni caso, considerato che la ferita inferta al capo del nostro bracciante ha causato la frattura dell’osso ed è necessario scoprire la parte dolorante con il ferro per esaminarla, il medico insiste per incidere solo dopo essersi fatto consegnare il ferito «pro homine mortuo». Se, a seguito dell’operazione il paziente morirà, non ci sarà responsabilità alcuna per lui; sempre meglio tutelarsi!
In questa occasione in cui abbiamo meno tempo del solito, Abramo, finita la prestazione, è in vena di chiacchiere e, dopo essersi fatto pagare, vuole sfogarsi raccontandoci la sua storia e come a causa della sua religione era stato emarginato. Prima di venire ad Assisi abitava a Milano con la figlia in una piccola casa del centro.

Il locatario, un vecchio sdentato e male in arnese, aveva chiesto loro un affitto basso malgrado li sapesse di fede ebraica: il motivo della sua generosità era legato alla cronica penuria di inquilini nella casa di sua proprietà, causata dall’inquietante vicinanza con quell’ospizio, unico lebbrosario della città. Aveva aggiunto, comunque, che nessun segno esteriore della loro religione avrebbe dovuto essere manifestato sotto il suo tetto, perché lui non voleva seccature: la minima inosservanza di quel patto li avrebbe cacciati.
…aveva dovuto accettare: aveva avvolto la menorah, il tallit e i tefillin in un panno di lana pesante, nascondendoli poi nel forziere insieme con i suoi testi di medicina; l’unica testimonianza della sua fede che non aveva avuto il coraggio di eliminare alla vista era stata la mezuzah, che aveva appeso allo stipite destro della porta d’ingresso, celata sotto una provvidenziale sporgenza del muro. Alla fine, aveva ripiegato la sua veste di medico: la figlia lo aveva visto piangere, mentre lisciava delicatamente con le mani il tessuto rosso cupo. (Montaldi, Valeria (2006) Il signore del falco)

Abramo è sicuramente bravo, ma viene da fuori e spesso occorre attendere a lungo per essere curati. La richiesta di assistenza per i cittadini di Armenzano sta diventando una priorità e appena qualche anno più tardi Tomas Cecee di Assisi lascia nel suo testamento un casaletto in castro Armenzani per costruirvi un ospedale entro tre anni; per la riparazione del detto ospedale, il 29 luglio 1477, Bernardinus Bartholomei Salvis, effettua un lascito di 20 bolognini. (Assisi al tempo di san Francesco : atti del 5. Convegno internazionale : Assisi , 13-16 ottobre 1977)
I conti di Armenzano che vengono con noi al matrimonio, finito il feudalesimo, si sono ormai trasferiti ad Assisi e hanno perso parte della propria importanza e autonomia; resta di loro solamente qualche traccia nei documenti di acquisto o vendita di terreni. Cercano di mantenere un certo rango tramite alleanze matrimoniali come quella con gli Aloigi di Assisi, casata suddivisa in due rami, uno dei quali nel 1437, in seguito al matrimonio contratto da un suo esponente con Giacoma Mammone dei conti di Armenzano, divenne Aloigi-Mammone. Tale legame è attestato proprio dalla composizione del blasone, il quale presenta nella parte superiore due gatti mammoni affrontati che sorreggono un castello torricellato, appartenente alla famiglia Mammone… (F.Cervini, C.Spantigati (2001) (a cura di) La Pinacoteca dei cappuccini a Voltaggio)
E’ arrivato il momento e tutti tirati a lucido andiamo finalmente in direzione di Perugia. Dopo aver percorso ben poca strada la nostra scorta scruta in lontananza degli uomini a cavallo e subito ci mettiamo in assetto difensivo. Più le sagome si avvicinano, più gli animi si tranquillizzano, è un manipolo sparuto di soldati in fuga da qualcosa o da qualcuno. Si qualificano, sono di Assisi e sembrano avere molta fretta di sconfinare nelle Marche. Sono visivamente affaticati e impauriti; insisto nell’offrire loro, prima di congedarli, dell’acqua fresca e qualcosa da mangiare.
Prende la parola il loro comandante: è Guido da Scifa luogotenente di Alessandro Sforza governatore della città che ha dato i natali a San Francesco, e ci racconta brevemente cosa gli è accaduto: “Tutto è iniziato una notte di novembre di quest’anno del Signore 1442, senza luna e sotto una fitta pioggia. Sapevamo che: Carlo Fortebraccio da Montone, il Pazzaglia signore di Montegiove, Riccio di Taranto e Niccolò Brunoro si erano coalizzati per impadronirsi delle alture intorno a noi e si avvicinavano minacciosi alla rocca. Ci sentivamo, comunque, in grado di contrastarli e di contenere il contemporaneo assalto alle mura di Nicolò Piccinino marchese di Orvieto. Fino ad allora stavamo riuscendo pienamente nell’intento.
Ero tranquillo nei miei appartamenti quando di colpo sentii uno dei soldati di ronda lanciare l’allarme: il Fortebraccio era riuscito ad entrare. Non riuscivo a spiegarmi cosa stesse succedendo e da dove fossero arrivati. Seppi solo poi che erano passati per un condotto sotterraneo di un antico acquedotto, scortati probabilmente da un frate traditore. Erano solo 300 fanti, ma ci presero alla sprovvista, aprendo subito una breccia nelle mura allo scopo di ricongiungersi con l’esercito del Piccinino già pronto per l’attacco decisivo alla città. Ci mobilitammo, ma ormai era tardi e il mio capitano Alessandro Sforza con i suoi 800 cavalieri si schierò solo allo scopo di difendere il difendibile.
Accanto a lui, i suoi compagni lanciavano urli di guerra, agitavano le loro insegne, si passavano borracce di acqua di vita e fiasche di vini odoriferi e sottili. La prima, l’acqua di vita, quintessenza, anima del vino, serviva a eccitare la collera e a scacciare la flemma, a risvegliare quell’umore che fa l’uomo coraggioso in battaglia; i secondi, i vini speziati di Oriente, servivano a generare sangue spesso, grasso, caldo e viscoso, il sangue che occorre quando c’è da versarlo nella mischia. C’era chi rideva promettendo la morte del nemico, chi piangeva, commosso al ricordo di un amico morto, che ora non era più al suo fianco ma che di sicuro guardava di lassù, chi si faceva forza invocando su di sé lo sguardo della propria donna, chi pregava raccomandando l’anima a Dio. (Scurati, Antonio (2006) Il rumore sordo della battaglia)
Nel frattempo, con la strada spianata dai guastatori, penetrarono centinaia di cavalli e di fanti; anche l’Orsini entrò in Assisi appoggiando le sue scale presso la porta di San Francesco. Molti abitanti cercarono scampo in San Francesco ed in Santa Chiara. Vidi gli uomini del Piccinino dirigersi proprio verso quest’ultimo convento intimando alle suore di lasciare il luogo per essere accompagnate sotto scorta a Perugia. Al loro rifiuto, i suoi soldati si gettarono sulle religiose inermi e sulle donne rifugiate nel monastero. Lasciai la mia pattuglia e accorsi in auto di una ragazza che stava subendo delle angherie inenarrabili.
La donna lottava, si dibatteva, ma ben presto quella ridda di mani impazzite la strinse in una nicchia del muro, e li ne fece strame. Quelle mani la tormentavano in ogni recesso del corpo, compresi quelli più oscuri e sozzi. Le sue gambe lunghe, le caviglie sottili, i polpacci sodi, i piedi piccoli ma non magri, il petto ampio, luminoso, così morbido che pareva disossato, il ventre capiente e molle, le natiche sode come quelle di una cavalla, tutto ora si mostrava a quel cielo che non conosceva più legge se non quella di Dio, e tutto un istante dopo veniva coperto, battuto, pizzicato, storpiato dalle mani…(Scurati, Antonio (2006) Il rumore sordo della battaglia)
Prima di raggiungere la donna fui richiamato dallo Sforza; la battaglia stava volgendo al peggio e eravamo costretti alla ritirata in direzione della Rocca Maggiore. Dovemmo assistere impotenti l’assalto dei bracceschi che riempivano le strade avidi di bottino. Il sacco durò tre giorni e solo per miracolo Assisi non venne distrutta come avrebbe voluto Perugia, che aveva offerto al Piccinino una ricca ricompensa di 15.000 fiorini (Fortini, Arnaldo (1940) Assisi nel Medioevo) da lui rifiutata.
Questa notte, prima dell’irreparabile attacco finale, siamo riusciti a uscire in gran segreto e siamo ora qui in fuga verso Macerata. Grazie per l’acqua ed il cibo ma ora ci aspettano e dobbiamo andare prima che sia tardi.”
Si congedano, quindi, frettolosamente come sono arrivati mentre io non perdo occasione di ribadire ai nostri ospiti il mio parere che restare a casa, in periodi turbolenti come questi, sarebbe stata una scelta migliore. Dal canto loro, invece, i miei compagni sembrano più euforici dall’avventura che stanno vivendo, che spaventati da ciò che può succedere. Era già stato per loro divertente vestirsi alla moda del Medioevo e ora già fantasticano su cosa potranno trovare alla festa. Fanno mille domande su dove ci stiamo dirigendo di preciso e su chi sono questi famosi Baglioni.
Faccio quindi loro da Cicerone: “Sono una nobile famiglia di stirpe militare di origine germanica che scese in Italia al seguito dell’imperatore Federico I Barbarossa. Il capostipite della dinastia, Ludovico Oddo Baglioni, duca di Svezia e cugino del Barbarossa, venne insignito dall’imperatore del vicariato di Perugia già nel 1162. Tra il ‘300 e il ‘400 furono in lotta con l’avversaria famiglia degli Oddi per il controllo della zona centrale dell’Umbria. Intervallati da continui sali scendi e vicende cruente, la famiglia estese i propri possedimenti ben oltre la città di Perugia. Troviamo alla metà del 1300 Baglione Novello governare addirittura la città di Spello anche se vi rimase pochi anni, prima di essere obbligato dal popolo ad abbandonare la città. A lui successe Oddo e poi Pandolfo che tornò vicario apostolico di Spello. Anche questo dominio durò poco perché la fazione dei «Raspanti», rappresentanti del popolo minuto, e quella dell’aristocrazia cittadina si scontrarono sanguinosamente per il predominio della città e a causa di questi scontri Pandolfo fu ucciso. Il defunto aveva due figli che presero il suo posto: Malatesta e Nello Baglioni. Malatesta morì nel 1437 avvelenato dal suo medico su richiesta dei Folignati e lo stesso Nello riuscì a salvarsi fuggendo, rimanendo così l’unico dominatore della nostra zona per vent’anni.
A Nello successero i figli Pandolfo e Galeotto il cui governo durò fino al 1460, anno in cui i figli di Malatesta: Braccio, Guido e Rodolfo, uccisero i cugini per garantire e rafforzare il potere del loro ramo in seno alla famiglia Baglioni. Nessun problema perché Braccio, pur essendo stato il responsabile e quasi certamente l’esecutore dell’assassinio, ottenne il perdono del Papa e poté governare indisturbato. Fu proprio lui che più di tutti i altri si avvicinò al principato, perché in una sola persona si trovarono presenti il politico, il guerriero e il mecenate. Infatti intorno alla metà del ‘400 la famiglia esercitò su Perugia una signoria occulta e quelli furono anni di splendore, mecenatismo e florida crescita. La signoria baglionesca non cercò mai di dissolvere gli istituti e le magistrature civiche. Ovviamente, ne fece occupare gli scanni e i seggi da persone loro amiche, ma l’autonomia strutturale dei comuni sottomessi non fu mai in pericolo, perché la signoria, per difendersi dalla minaccia della politica pontificia, aveva bisogno di farsi scudo dei privilegi statutari comunali.

Braccio morì nel 1479, il governo delle terre soggette ai Baglioni rimase nelle mani di Guido e Rodolfo. (Tedeschi, Paola (1995) In armario communis: aspetti della storia di Spello…)

Non potete negare che non sia una famiglia tranquilla!”
A sentir parlare di tutti questi trambusti e uccisioni i nostri ospiti hanno perso un po’ di buon umore, del resto io lo avevo detto che preferivo restare a casa e non mi esimo da ricordarlo in ogni occasione! La curiosità di vedere la città di Perugia e di partecipare a questo importante matrimonio tra la casata del Baglioni e dei Colonna resta però in tutti dominante rispetto a qualsiasi altro sentimento. Lorenzo dei Medici resta, di fatto, il vero ispiratore e la guida superiore della politica del tempo, per Firenze e anche per Perugia. Aveva compreso come fosse utile fra la signoria di Firenze e la Chiesa la presenza di quella repubblica di gente «gagliarda e cimentosa». Guido e Rodolfo avevano conservato pro-indiviso la condotta e lo stipendio che aveva Braccio e, appena sentito sulle spalle il peso e la responsabilità del potere, avevano dimenticato i vecchi dissidi. Nessuno dei due, da solo, avrebbe potuto sostenere la signoria, ma soltanto insieme potevano sperare di riuscirvi.
Il popolo perugino dal canto suo era tradizionalmente dedito a feste, giostre ed balli che cominciati in primavera e si protraevano fino a quando il tempo lo consentiva. Anche il frequente passaggio per la città di ospiti illustri era una ottima scusa per gozzovigliare.

Ma non sempre si cantava, si ballava o si stava a banchettare: v’erano i giorni nei quali avvenivano i piazzeggiamenti, cioè le risse di piazza, che finivano con qualche morto tra i contendenti, che erano provocate quasi sempre da famiglie nobili contro le altre. (Gurrieri, Ottorino (1982) Storia di Perugia: dalle origini al 1860)

Spesso il papa, per ristabilire la pace tra i due gruppi più ostinati: i Baglioni e gli Oddi, è solito assoldare al suo servizio gente dell’una e dell’altra parte e mandarla a combattere il più lontano possibile, inviando commissari straordinari ed osservatori spesso incapaci e impreparati. Le cause dei «piazzeggiamenti» sono per la maggior parte provocati da motivi superficiali e infantili, dimostrando che vi è solo la volontà di vivere in eterna discordia anziché in tranquillità. A Perugia dopo la morte di Braccio non si percepisce più la presenza dominante di un vero signore, ma uno stato di disordine che invano Guido e Rodolfo riescono a dominare e dirigere, dovendo tenere a bada anche i loro figli, buoni soltanto ad impugnare le spade per qualsiasi sciocchezza. Per di più nel 1492 muore Lorenzo dei Medici e sul soglio pontificio sale Rodrigo Borgia con il nome di Alessandro VI; Perugia viene a perdere in un colpo solo i propri alleati principali: Firenze e il Papa. Ciò nonostante, tra le due famiglie contendenti al governo della signoria prevalgono i Baglioni che, sconfitti definitivamente i rivali storici, non hanno da combattere più contro alcun avversario.
Siamo arrivati a Perugia il 28 giugno 1500, il giorno del matrimonio tra Astorre e Lavinia. Troviamo le strade della città piena di archi di fogliame e allegorie, le facciate dei palazzi sono ornate da tappeti tessuti con fiamme, si vede gente bere vino e mangiare a sazietà carni e pollami arrostiti e disposti su treppiedi lungo le vie, lunghi cortei di emissari recano doni come: broccati, ori e gemme, inviati da tutti gli stati limitrofi. Per l’enorme numero degli invitati si e deciso che il pranzo sia tenuto in piazza. Penso che si parlerà a lungo in tutta Italia di questa sontuosità! Vediamo addirittura un giovane sopra un carro pieno di confetti, li getta ai popolani con abbondanza, è Simonetto uno dei figli di Rodolfo e cugino di Astorre.
Ciò che caratterizza la famiglia Baglioni è proprio la sua prolificità. Sono molti ed è difficile ricordarsi tutti i nomi. Malatesta ha avuto 5 figli, che hanno procreato altri figli tra legittimi e bastardi, da cui sono nati un nugolo di nipoti. Nei rami principali della famiglia sono poi nati più maschi che femmine, e sono tutti d’indole bellicosa con una educazione piuttosto irrequieta e animosa. Nessuno si è dedicato allo studio delle lettere e delle scienze, e pochissimi hanno abbracciato la carriera sacerdotale, chi poi lo ha fatto, quando ne ha avuto occasione, sopra la tonaca ha messo una corazza.
In generale

per i pranzi nuziali si spendevano dei veri patrimoni. Secondo l’usanza, lo sposo doveva inviare, prima delle nozze, a casa della sposa un paio di pianelle adorne d’oro e d’argento. Da parte loro, i genitori contribuivano all’arredamento della nuova casa degli sposi con molti e costosi panni di lana. Le donne amiche, maritate o nubili giungevano il giorno delle nozze, portando canestri, cofani, cassetti carichi di doni, nonché “pan caciato” (panem casiatum), e “pane melato” (panem mellitum). Erano molto in voga i doni in denaro, ed era di prammatica offrire forti mance (mancias) alla sposa…era costume tradizionale che le donne si recassero il giorno delle nozze, per canti e per danze, nella casa degli sposa che soleva incedere, nel corteggio nuziale, sopra un ricco palafreno. (Fortini, Arnaldo (1959) Nova vita di San Francesco)

Naturalmente questo è il matrimonio dei matrimoni e tutto risulta più grande, più ricco e più bello. Lì in mezzo alla folla scorgiamo Guido il padre dello sposo. Nella famiglia spicca per il portamento nobile e per l’accortezza che spesso dimostra nel frenare, se pur a fatica, l’insorgere di contese interne; ma di contro è noto il suo fatalismo inguaribile. Non possiamo nell’osservarlo non notare nel suo volto una vecchiaia ormai avanzata. Vicino a lui c’è la moglie Costanza da Varano, figlia del signore di Camerino, e il fratello Rodolfo con la moglie Francesca Baglioni del ramo di Orvieto. Rodolfo in gioventù è stato un soldato impetuoso, sempre pronto a scendere in piazza con le armi in pugno per vendicare gli affronti, ma adesso appare un uomo finito dal «mal francioso»: la sifilide.
Dall’altro lato della tavolata notiamo Grifonetto, il nipote di Braccio. La sua bellezza è abbagliante, sembra un Ganimede e si dice sia ricco quanto bello. E’ noto come lui rivendichi il fatto di essere il vero erede della signoria fondata dal nonno, I figli di Guido e Rodolfo, a suo dire, hanno preso il posto che spettava a lui solamente per la sventurata perdita, prima del compimento della maggiore età, del padre Grifone in battaglia. Con lui vediamo parlottare Carlo di Oddo, detto il Barciglia, cugino di secondo grado dello sposo e altri giovani ben vestiti ma dall’espressione cupa, chissà di cosa discutono tanto invece di mangiare? Carlo si dice abbia un animo fiero e risoluto, ma dimostra di peccare di invidia nel confronti della potenza dei parenti.
Dal nostro gruppo una ragazza sta civettando su usi e costumi della nobiltà e su cosa succederà la mattina dopo le nozze: “Mi ricordo qualche anno fa quando facevo da dama di compagnia ad Eleonora D’Este. La figlia Beatrice si sposò con Ludovico il Moro e noi eravamo lì il giorno seguente.
Immaginate la madre che irrompe nella camera della neo sposa:

“Gli ambasciatori stanno arrivando, figlio mia. Devi alzarti.” La duchessa Eleonora fa girare la figlia su un fianco, le tira via le coperte e le alza la camicia da notte.
Beatrice si rende conto che le pesanti cortine vengono scostate per consentire alla fredda luce grigia del mattino di prendere il posto delle fiamme scintillanti del demonio.
“Non è molto, ma dovrà bastare,” dice Eleonora.
Prima che Beatrice possa chiedere cosa intenda dire, due delle sue dame a tirano giù dal letto e le infilano un abito pesantemente ricamato.
“Hai accolto tuo marito, grazie a Dio,” esclama Eleonora esaminando le lenzuola spiegazzate. “Altrimenti chissà cosa sarebbe successo. Avremmo dovuto scrivere a tuo padre. Lui non avrebbe preso bene la ritrosia di sua figlia durante la prima notte di nozze. Sai quello che pensa dei doveri.”
Si avvicinano a tre a tre dei passi ufficiali, che riecheggiano sul pavimento di pietra. Messer Trotti e due austeri gentiluomini che Beatrice non riconosce entrano nella camera. La ignorano. La loro attenzione va immediatamente alle lenzuola macchiate di rosa e spiegazzate. (Essex, Karen (2006) I cigni di Leonardo)

Vi risparmio la squallida disquisizione che seguì tra i dignitari delle due famiglie per decidere se tutto era in regola!”
Grazie al cielo la giornata sta volgendo alla fine; di confusione e di cibo ne ho avuto a sufficienza per molto tempo, ma ora è finalmente arrivato il momento di tornarcene tutti a casa. La notte del 15 Luglio è silenziosa quanto il giorno del matrimonio è stato chiassoso. Noi stiamo salendo in carrozza per il viaggio ma…di colpo un tonfo rompe il silenzio e tutto cambia in un secondo:

La congiura dei Pazzi e la strage di Senigallia impallidiscono davanti alle nozze rosse dei Baglioni, anche per il fatto che sono tutti parenti contro parenti, i quali si massacrano come se avessero covato per tanti anni ne’ cuori il perlopiù terribile odio. Carlo il Barciglia aveva organizzato le cose molto accortamente, disponendo che dovessino andare quindici homine per camera de ciascheduno homo della magnifica casa Baglioni e altrettante per ciascuna Porta. Il tonfo di una pietra doveva essere il segnale per mettere tutti i congiurati e scherani nella condizione di abbattere simultaneamente li usci de le camere dove dormivano quelli signori.
S’ode il tonfo, e tutto assume il clamore di una tragedia greca. (Gurrieri, Ottorino (1982) Storia di Perugia: dalle origini al 1860)

Muore Astorre, Guido, Simonetto e Gismondo fratello dello sposo. Riescono a fuggire rocambolescamente gli altri due fratelli Gentile e Adriano, lo zio Rodolfo e suo figlio Giampaolo. Lo spettacolo che siamo costretti ad osservare impotenti ci getta nello sgomento e nell’indignazione. I congiurati gettano i cadaveri dalle finestre e ora giacciono scomposti e sanguinanti sulla strada. Solo ad un’ora molto tarda, mossi a pietà, alcuni cittadini li portano via per seppellirli senza pompa e cerimonia alcuna. Quello che succede dopo lo sappiamo solo dai libri ma non per questo non possiamo che essere tristi per lo sventurato epilogo: “Rinsavito, Grifonetto volle incontrare la madre,

per giustificare e spiegare che era stato ingannato dai suoi consiglieri, ma lei rifiutò di riceverlo, profondendosi in anatemi e maledizioni contro di lui. Il popolo, finalmente disingannato, si rivoltò contro di lui, i complici fuggirono all’annuncio del ritorno di Gianpaolo e dei suoi uomini, e Grifonetto andò un’ultima volta sotto la loggia del palazzo della madre e urlò con una voce che fece gelare il sangue nelle vene a coloro che la udirono:
“Non tornerò più, ma presto vorrete parlarmi e non potrete più farlo, madre crudele con il proprio figlio disgraziato!”
Poi errò per le strade della città in attesa che qualcuno lo uccidesse. Vicino alla chiesetta di Sant’Ercolano, incontrò il cugino Gianpaolo. Mettendogli la punta della spada alla gola questi gli disse:
“Vai in pace poiché io non voglio affondare la spada nel sangue della mia famiglia, come hai invece fatto tu!”
Gianpaolo si allontanò ma, indifferenti alle sue parole e assetati di vendetta, i suoi compagni si scagliarono su Grifonetto e lo colpirono con daghe e picche, lasciandolo per morto sul selciato, immerso nel proprio sangue. Si stavano accanendo su di lui quando l’arrivo di Atalanta e Zenobia mise fine alla loro furia vendicativa. (Bouflet, Joachim (2005) Il diario segreto di Lucrezia Borgia)

Nel vedere quel corpo dalla bellezza scolpita privo di vita, le due donne, che prima lo avevano rinnegato, lacerate dal dolore si gettarono piangendo sull’uomo che aveva distrutto così tragicamente la propria famiglia, ma che ora non riuscivano ad odiare:

…Grifonetto Baglioni, con il suo farsetto attillato, il berretto ingioiellato e i riccioli simili a foglie d’acanto, che assassinò Astorre con la moglie e Simonetto con il suo paggio, e la cui bellezza era tale che, quando lo videro morente sulla gialla piazza di Perugia, quegli stessi che lo avevano odiato non poterono trattenere le lacrime, e persino Atalanta, che lo aveva maledetto, gli concesse la sua benedizione. (Wilde, Oscar (2004) Il ritratto di Dorian Gray)

Riguardo l'autore

Avatar for Emanuele Legumi

Ingegnere impegnato da anni nel campo dell’automazione industriale. Ama il suo lavoro ma al contempo è affascinato anche da: storia, tradizione e misteri della sua terra, l’Umbria. Collabora con alcune riviste e quotidiani e ha la profonda convinzione che il migliore investimento per il futuro sia la cultura, settore in cui l’Italia, per quanti sforzi possa fare, non sarà mai seconda a nessuno.

Puoi leggere anche:

La “Signoria” dei Baglioni inizia e finisce con Cannara

La “Signoria” dei Baglioni inizia e finisce con Cannara

I Baglioni e la morte di Grifonetto raccontati dal pennello di Raffaello

I Baglioni e la morte di Grifonetto raccontati dal pennello di Raffaello

Commenti

Non ci sono commenti per questo articolo.

Aggiungi un Commento

Obbligatorio

Will not be published. Obbligatorio

Opzionale